(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 34 - La gratitudine verso la poesia come "attraversamento"

 
di Sergio Daniele Donati 

 
Secondo quanto sostiene Gustav Jung nel suo testo Psicologia e Poesia (1930-1950) - Boringhieri editori - esisterebbero due approcci molto diversi tra loro alla poesia da parte di chi la scrive.
Esistono autori che hanno un rapporto di distacco ed intenzione col testo come se lo stesso fosse figlio di una chiara pre-conscia proiezione del poeta, di un dire già chiaro nella sua psiche. 
Esistono, al contrario autori, le cui opere poetiche sorgono quasi fossero imposte da una parte profonda di loro, da un Io che non viene riconosciuto, tanto da apparire allo stesso autore come non frutto della sua stessa penna, o, addirittura, come fossero dettate da voci loro non appartenenti. 
La premessa straordinariamente onesta del grande pensatore è che ogni indagine psicologica su un testo solo al  testo deve inerire e quindi non vede di buon occhio ogni tipo di interpretazione, anche di scuola freudiana, che spiega un testo poetico attraverso un'indagine di tipo analitico sull'autore e sugli accadimenti della sua vita. 
In ogni caso, tornando ai due tipi di poeti che sopra ho citato, mentre il primo appare avere un obiettivo già chiaro e quindi il suo rapporto con la parola è legato all'idea della maestria su di essa, nel secondo vi sarebbe una emersione inconscia, o semi conscia di un lato profondo della sua personalità e del suo Io che lo stesso poeta fatica a conoscere o, meglio, riconoscere.

Il grande analista spiega che, tuttavia questa distinzione, non deve essere affatto assunta in modo rigido, potendo ben darsi, e ne porta esempi, che lo stesso autore abbia con una sua opera la prima attitudine e con un'altra la seconda. 
Introversione ed estroversione per l'autore sono fenomeni che possono presentarsi in modo alternativo/alterno nello stesso soggetto e quindi un approccio estroverso alla scrittura (primo caso) può ben essere abbandonato dallo stesso autore in altra opera a favore di uno maggiormente introverso, o viceversa. 

Questa premessa sul pensiero e incursione di Gustav Jung in campo poetico mi permette una breve divagazione a cui tengo molto perché l'idea dell'essere attraversati dalla parole che poi divengono le nostre poesie, lo sapete mi è molto cara. 

Ed è altrettanto vero che chi vive quel tipo di realtà compositiva e poetica molto spesso, come dice Jung, fatica a riconoscere l'opera come propria, proprio perché frutto di una parte talmente profonda di sé da essere quasi impossibile da riportare a livello conscio.

Certo questo discorso toglie un può di fascinazione legata al mito della Musa, del Daimon o della divinità che ti detta le lettere, ma a ben vedere, e a ben leggere il testo di Jung questa rinuncia è subito compensata da una ricca acquisizione perché l'autore parla di una emersione dei contenuti dello inconscio collettivo soprattutto riferendosi al secondo tipo di poeta, e questo mi ha dato da pensare al mio percorso personale in  poesia.

Ché, forse, tutto il discorso che ho creato attorno al dialogo e alla creazione poetica come fenomeno plurale (le voci che ci attraversano) e collettivo (il flusso millenario di chi prima di noi ha scritto, immenso dono a cui dovremmo mostrare maggiore gratitudine) è per me una sorta di restituzione all'alveo (per l'appunto collettivo e plurale) che mi permette di creare di piccole particelle poetiche. 

Voglio dire che, se si percepisce la scrittura come fenomeno di attraversamento duplice (si attraversano le parole e dalle parole/voci si viene attraversati), la tendenza poi della ricerca del dialogo appare come una dovuta restituzione e, allo stesso tempo, come una presa ancora maggiore di distacco dal testo il quale ultimo, volenti o nolenti, paradossalmente porta la nostra firma.

In altre parole, il dialogo è sempre anche una forma di gratitudine alla pluralità delle voci che è l'argilla costitutiva di un certo approccio alla poesia.
Un affacciarsi al mondo contemporaneo con uno sguardo che contempla la moltitudine e non la solitudine del verso, è sempre un modo di porsi in ascolto di ciò che è, sarà ed è già stato in poesia e fuori di essa.

Che la voce sia esterna a noi (musa), o profondamente radicata in noi (io profondo inattingibile) o ancora si situi tra le due cose come richiamo ad un "inconscio collettivo" e ai suoi archetipi, in fondo poco conta nel ristretto concetto che sto cercando di esprimere. 

Ha un'enorme rilevanza, invece in campo analitico, ma ci vorrebbero ben altre competenze che le mie per poterne discettare.
 
Nel campo ristretto di questo mio intervento sul tema, ciò che per me conta è che avvenga poi una restituzione almeno in parte altrettanto dialogica, plurale e collettiva, perchè non si attinge a pozzi così profondi senza lasciare un dono, magari inadeguato, ma sicuramente sentito.

Voglio dire che uno degli effetti dell'accoglimento di quelle tesi su di sé è, o almeno dovrebbe essere, una sorta di gratitudine dello scrivente verso le voci terze che lo hanno spinto a prendere il pennino in mano. 
È un gioco sottile tra collettivo e individualità che non può - se si vogliono evitare gli egocentrismi purtroppo troppo frequenti in poesia contemporanea - che manifestarsi in un reciproco riconoscimento e dono.

In altre parole sapere di "essere attraversati" non basta, è necessario manifestare gratitudine e restituzione per un dono che ha in sé semi di infinito e che chissà chi mette sulla nostra strada.

Apporre una firma a una poesia, se la si è scritta come descrive Jung per il secondo tipo di poeta, significa in un certo senso "firmare in delega" "in nome e per conto" anche delle voci che ti hanno attraversato e che tu, si spera degnamente, rappresenti. 

Nessuna poesia scritta in quel modo viene sottoscritta "in proprio", in altre parole, ma ricordandone la sorgente collettiva e plurale che dal poeta viene percepita come fonte unica della scrittura che esprime.

Per questo, anche, queste pagine prenderanno sempre più la forma di laboratorio di ricerca di poesia dialogica, in ogni sua espressione e via.

Che sia con presenze fisiche esterne (altri poeti) o tra parti diverse di sé, la poesia ha sempre una matrice dialogica e Le parole di Fedro si pone su questa precisa strada di ricerca da sempre, e sempre più lo farà.
 
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Commenti

  1. È possibile rientrare in entrambe le categorie? Visto che per me è così o almeno sembra essere

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  2. Essere attraversato dalle parole, sensazione che mi appartiene

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  3. In sostanza la tua è una riflessione che mi convince specie nel richiamo a qualcosa che ha a che fare con il patrimonio collettivo. Infine aggiungerei anche il concetto di Reverie di Bachelard

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  4. Grazie Gianfranco per i tuoi magnifici commenti. Il richiamo poi alle Reverie è di dovere.

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  5. Psicologia e poesia e’ un tema che mi e’ da sempre caro, un percorso dialogico che origina spesso dall’ inconscio e che attraversa i meandri più umbratili e labirintici , per inoltrarsi verso il magico oltre ed il significante . Nadia Chiaverini

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