A proposito di DADAADALDA (RPlibri ed., 2024) di Sergio Carlacchiani, nota di lettura di Sergio Daniele Donati

 

Che valore abbia per me la parola dedicata non l'ho mai nascosto. 
E ancor meno ho nascosto a chi mi legge quale sia la relazione -  non solo di false friend -  tra parola dedicata e parola delicata. 
La parola muove sempre verso l'altro da sé, è naturalmente eterodiretta e, a a meno che non sia figlia di un egocentrismo dell'autore privo di senso, trova il suo completamento sempre e solo nel lettore.
Ogni parola poetica nasce come incompleta e vive l'inquietudine dell'incompletezza sino a che non trova riposo nel suo fruitore.
Questo è vero per ogni verso, dal più eccelso al quello di minor effetto poetico. Ogni dire poetico si completa nell'altro da sé, lo si ripete. 
Ma la dedica, il saper dare ai propri versi una direzione precisa nel ricordo di una persona in particolare, ha sempre un profumo in più. 
La parola che è destinata, oltre che ad un indifferenziato fruitore, a rinverdire la memoria di un individuo in particolare, la parola che porta con sé, anche senza dirla, una dedica non può che avere in sé i semi della delicatezza. 
Questo lo sa bene Sergio Carlacchiani che ci dimostra una maestria particolare nella sua opera DADAADALDA (RPlibri ed., 2024), dedicata alla poeta Alda Merini, da lui a lungo frequentata e conosciuta.

Sergio Carlacchiani è artista completo: poeta, performer, attore, pittore, sa passare da un linguaggio di espressione artistica all'altro con la facilità con cui io, mesto poeta, so ricaricare, non senza sporcarmi di inchiostro ancora i polsi, la mia stilografica. 
La sua è una scrittura volutamente priva di ricerca metrica standardizzata, perchè portatrice di un ritmo interno (ed interiore) di tutta evidenza che rende preziosa anche la voluta sbavatura, l'eccesso cercato, l'effetto che plasma il lettore verso un processo trasformativo. E in questo l'elemento attoriale di Sergio Carlacchiani pare aver influenzato positivamente la sua stessa scrittura. 
C'è, se non sempre, molto spesso, nelle poesie di Sergio Carlacchiani un elemento di devianza che indica al lettore il contatto diretto con l'Altrove. 
È un effetto ricco per chi lo legge, simile a quello che vive chi incontra una quercia millenaria in un bosco di pini. 
Delicato dicevo, e lo confermo, ma non certo melenso, perchè Sergio Carlacchiani sa usare anche registri gracchianti ed aspri anche se, tuttavia, lo fa sempre con l'intento del deposito di petali delicati di ricordo a terra.
Questo almeno pare a me di percepire leggendolo. 

Il caldo latte della vacca

chi l’avrebbe detto che mi sarei arreso
esaurito da una lotta senza speranze?
L’amore è stanco d’illuminare il giorno
inutile piantare alberi nel mio cuore
non sboccerà più la verità ehi voi
Giuda abbracciatemi voglio sentire
fratelli quel male odore di sangue
in trance tornerete mai in libertà?
Mi cacciate dalla città fate finta
di niente ipocriti cosa ne sarà di voi?
Questo ciò che resta della vostra anima?
Continuerete a respirare dense nebbie
sfregi sanguinanti tracceranno solchi
senza limite sui vostri passi scorrerà
oscurità striscerete come serpenti
per bere il caldo latte della vacca che
riconoscendovi bestiaccia vi scalcerà!

Così si esprime il poeta: con invocazioni colloquiali (ehi voi) avvicinate a registri aulico/simbolici (continuerete a respirare dense nebbie), con un linguaggio previsionale quasi profetico non privo di ironia (... vacca che/riconoscendovi bestiaccia vi scalcerà!) affiancato a prese di coscienza disarmanti (l'amore è stanco di illuminare il giorno).
E in questi salti, che richiamano il Dadaismo cui si rivolge fin dal titolo l'autore, il lettore stranamente non si perde ma cresce.
Vi lascio con un poesia che ho trovato centrale nella raccolta, una poesia allitterante (sulle erre), in cui pare che il poeta manifesti il suo stesso manifesto poetico (non me ne voglia il Carlacchiani per il gioco di parole), il suo desiderio che, per chi vi sta ora scrivendo ha i connotati del sacro, di ridare valore al tempo passato a fissare l'infinito.
Perchè prima di ogni parola, anche di leopardiana memoria, che sull'infinito possiamo mettere, c'è quello stordimento sacrale che ci parla della estendibilità dei nostri limiti di comprensione verso un non suono infinito, creatore di ogni parola.


Rezzi d’irriti assilli

la sete di vita m’illumina gli occhi
mai dormo di notte inutilmente
non è tempo perso fissare l’infinito
nell’oscuro immaginare d’accendere
una ad una le stelle della volta celeste
desidero bruciare con loro lentamente
a cuore nudo percorrere metallici vortici
di scintille ebbre di sanguinare sconnesso
lunghi calvari di ciottoli di diamante rosso
nido di sfasciata clausura rezzi d’irriti assilli

Per la redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati




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