Genere In-verso - 13 - Lampi di poesia operaia italiana

 
 
 di David La Mantia
 
 


Cominciamo da qui.
Dalla condanna crociana per una poesia che andasse oltre se stessa, oltre la propria autoreferenzialità. Contro il Dante del Paradiso, contro il Leopardi di lotta e di pensiero, contro il Foscolo dei Sepolcri. La poesia di questi grandi per lui funziona solo nei momenti in cui essi sognano, sperano, amano, gioiscono, si infuriano. 
Non quando usano la poesia come strumento per dimostrare delle tesi, una Weltanshauung. Da qui nasce anche una condanna di Lucrezio. Di certo, sociale e politica sono ben lontani da Croce e dall'apparentemente distante attualismo gentiliano.
 Non stupisce che ancora oggi molti puristi, seguaci di Carlo Bo, non considerino questa versificazione degna di essere menzionata, letta, studiata, amata.
Quando nasce, dunque, una poesia sociale e soprattutto operaia? Nell'ottocento, nella poesia italiana, c'era stata attenzione alle fabbriche ed alle condizioni di vita degli operai. Si pensi al Canto dei lavoratori di Filippo Turati e alle opere di Ada Negri, come Madre operaia.
Ma nel Novecento?
In principio fu Luigi di Ruscio, per decenni rimasto in uno stato di periferia poetica e di marginalità editoriale. Autodidatta, nato a Fermo nel 1930, emigrò dalla sua città natale nel 1957, dopo l’esordio nel 1953 con “Non possiamo abituarci a morire”, presentato da Franco Fortini, per stabilirsi ad Oslo, in Norvegia, dove per trentasette anni lavorò come operaio metallurgico e dove morì nel 2011.
 
Per colazione hanno acqua e pane
bevono molta acqua
la saliva che hanno devono sputarla sulle mani
perché il martello non scivoli
a mezzogiorno mettono nel brodo d'erbe
il solito pane nero
al coprirsi del sole se io sono pieno di malinconia
per loro è bello tornasene a casa ridendo
sedersi in famiglia e giocare con i figli
dopo dieci ore di lavoro sulle pietre
per quel poco pane e perché la moglie
continui a fare per ultimo il piatto
perché a nessuno manchi la parte
 
In principio, per me, furono anche Gli Strumenti umani (1965) di Vittorio Sereni.
 
Lietamente nell’aria di settembre più sibilo che grido
lontanissima una sirena di fabbrica.
Non dunque tutte spente erano le sirene?
Volevano i padroni un tempo tutto muto
sui quartieri di pena:
ne hanno ora vanto della pubblica quiete.
Col silenzio che in breve va chiudendo questa calma mattina
prorompe in te tumultuando
quel fuoco di un dovere sul gioco interrotto,
la sirena che udivi da ragazzo
tra due ore di scuola. Riecheggia nell’ora di oggi
quel rigoglio ruggente dei pionieri:
sul secolo giovane,
ingordo di futuro dentro il suono in ascesa
la guglia del loro ardimento…
ma è voce degli altri, operaia, nella fase calante
stravolta in un rancore che minaccia abbuiandosi,
di sordo malumore che s’inquieta ogni giorno
e ogni giorno è quietato – fino a quando? 
 
Sereni, dunque, da ospite (non) ingrato. Ma c'era stato qualcosa anche prima. Si, ma.. Anche perché le Poesie: 1946-1948, di Nella Nobili, uscite nel 1949 per Tosi e Danzi, erano state un lampo nel buio, presto dimenticate, tanto da tornare in auge solo alla fine degli anni settanta. Per l'artista, nata nel 1926, che giovanissima inizia a lavorare come soffiatrice di vetro in una fabbrica di medicinali, per finire suicida in Francia nel 1985, a cinquantanove anni, distrutta nel corpo, lottando fino alla fine per il riconoscimento dei diritti della comunità lesbica, la fabbrica “è un muro”:

È una prigione la fabbrica
È un inferno la fabbrica
Una punizione
Quando ci entri a quattordici anni.  
 
Ferruccio Brugnaro (1936), uno dei tanti operai a Porto Marghera negli anni Cinquanta massacrati dal PVC e dalla mancanza di sicurezza, credente attivo, impegnato per gli ultimi, come in quegli anni Danilo Dolci, padre Balducci, don Milani, don Zeno Saltini. Gli operai rappresentano il volto di Cristo, sono la trasposizione del suo sacrificio. Fu la moglie maestra che ha insegnato a scrivere al poeta, ad aiutarlo nella difesa e tutela dei lavoratori e della loro dignità, con uno sguardo al tema ecologista e della salute.
 
BRACCIANTE, RACCOGLITORE DI STRACCI

Bracciante, raccoglitore di straci
operaio degli alti forni
pescatore
venditore abusivo di crostacei.
Mio padre
era così
adoratore del sole, adoratore
delle barene
silenzioso
fanatico del mare.
Non ha mai parlato
con nessuno
analfabeta
credente solo nella vita
solo nel suo trascinare
inquietante
dai primi cenni dell’alba
ai tramonti fondi.
Mio padre
così come è stato dentro
in questo mondo torbido
senza chiedere niente a nessuno
stanotte è sceso nel tempo
profondo
nei cieli grandi che lui guardava
per ore e ore
negli universi incandescenti e amati
con dura segretezza.
Non sono triste
sono felice
contento
me lo risento dentro tutto
irruentemente
ora
col suo canto dalla nostra cucina nera
e senza finestre.
Il suo canto, più che un canto
il suo era ed è
un grido, un urlo selvaggio
denso
che io rilancio con tutta
la forza delle ferite
di un amore a brandelli
contro queste ore
di padroni affamati di sangue
di retate
contro le sbarre pesanti dell’emarginazione
contro le foreste di un dolore
e una solitudine senza fine  
 
Oggi c'è anche una nuova generazione di poeti operai puri, che, dall’esperienza diretta vissuta nella fabbrica, ne svelano l'enormità, apparentemente invisibile, dei soprusi e dei diritti violati.
Da non dimenticare Nadia Agustoni. Di Bergamo, del 1964, operaia, poeta, critica militante. La nostra canta un crudele impoverimento economico, culturale e sociale, un mondo che ha sostituito boschi e pianure con capannoni e stabilimenti industriali, gli affetti con la misoginia, con la prevaricazione. E denuncia la condizione delle donne che lavorano, costrette a una doppia angheria, professionale e familiare.

A FINE TEMPO

Al posto degli occhi due buchi e folto
il fondo che raspano, quei graffi alla paura
che mostrano diritto e rovescio e vedono
tutto se vedono.

Abbiamo dalla nostra poco o niente
i giorni passano uguale a quando eravamo giovani
e si pensava ad andare via a non aver paese
ma sogni grandi per scriverli o averne indietro
il nome della tenerezza.

Siamo meno adulti di quando entrando dai cancelli
uscivamo a fine tempo, parodia di insetti operosi,
muti e scolastici nell’apprendere.

Fabio Franzin (1963) ha incominciato a lavorare a sedici anni, entrando in fabbrica nel 1979, e ne è uscito nel dicembre 2022, dopo 43 anni. Ha scritto a partire dai trentanni, in dialetto, che è la vera lingua degli ultimi. Ha scritto mentre le lotte operaie stavano sfumando, le paghe rimanevano basse e le condizioni di sicurezza sul lavoro erano sempre più insufficienti.

Par nome / Per nome
(...)

Joussuf i ‘o ‘à mess
a ciapàr tòchi drio
‘na multilame. L’é
un fià lento, ‘ncora,
calche steca ‘a ghe
passa via, sora i rui,
‘a ghe casca par tèra;
ma lu ‘l sa che ‘l pòl
deventàr pì sguèlto,
co’l tenpo, e ‘lora no’
el ghe bada ae paròe
che ‘l capo che zhiga
drio, te chea lengua
cussì stranba, anca
se l’à capìo che tante
le ‘é bestéme, anca 
se lo sinte che a lu
no’ ghe piase ‘l coeór
dea só pèl, che no’l
voràe ‘verlo fra i pie
no’l ghe bada parché, fra
‘na steca ciapàdha e una
che casca, el vede i fiòi
e só fémena scanpàr via
daa fame; tornàr far faméjia.
_____
Joussouf ha trovato posto
in coda
ad una multilame. È
un poco lento, ancora,
qualche asta gli
sfugge, dalla rulliera,
gli cade in terra;
ma lui sa che può
diventare più rapido
col tempo, e allora non
fa tanto caso alle ingiurie
che il capo gli urla
addosso, in quel dialetto
così incomprensibile, anche
se ha capito che molte
sono bestemmie, anche
se ha intuito che gli
da fastidio il colore
della sua pelle, che preferirebbe
non averlo fra i piedi
non ci fa tanto caso perché, fra
un’asta afferrata e una
che gli cade, vede i figli
e sua moglie fuggire
alla fame; la famiglia ricomporsi.

Con Trucioli, invece, (Aut Aut, 2021), Matteo Rusconi(1979) è entrato nel novero ristretto degli autori significativi della poesia italiana operaia del XXI° secolo, mettendo al centro temi come il diritto al lavoro e di denuncia dello sfruttamento, in una logica di lotta di classe.

Una poesia volutamente crudele ed impietosa, come impietosa è la società, il modello di sviluppo che ci circonda. Senza particolare ricercatezza, senza effetti speciali cari a molta poesia contemporanea, con immagini nitide e puntute. Ricorda molto il lavoro che Alberto Prunetti sta conducendo in prosa.

#44

Mi porto a casa il rumore della fabbrica
come un reduce porta dentro di sé
il ricordo della guerra.
Nella doccia ritrovo
lo stridere del metallo
il battere del martello
e tra i capelli ho sparsi i trucioli di un cristo di ferro.
Il tempo ciclo è importante più dell’anima,
la velocità è tutto
gli avanzamenti sono tutto
e il mio invecchiare è il niente,
io sono solo un meccanismo sostituibile.
Mi porto a casa l’odore della fabbrica
come un cane che ritorna da un tuffo nella fogna
e sul limitare penso spesso
al tempo perso là dentro
alla poesia di Prévert nel mio armadietto
e al sole che brucia le spalle
mentre alla mia pelle ci ha già pensato il solvente.

Ecco, ho cercato, con alcuni lampi, di rendere conto di qualche nome ingiustamente poco conosciuto. È un punto di partenza. La ricerca continua.
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Bibliografia
 
1- https://ilmanifesto.it/quando-la-poesia-apre-la-fabbrica-alla-rarefazione-del-narrare
2- https://atelierpoesia.it/la-lingua-batte-sul-ferro-poesia-operaia-di-matteo-rusconi/
3- https://www.collettiva.it/copertine/culture/nei-corpi-e-nei-versi-della-poesia-operaia-w6llfzmj
4 - https://jacobinitalia.it/poeti-ed-operai/
5- https://www.collettiva.it/archivio-storico/rassegnait/letteratura-e-lavoro-in-italia-xf2cnah1
6 - Simone Giorgino, Poeti in rivolta. Lavoro e industria nella poesia italiana contemporanea, Biblioteca Sinestesie, 2018














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