(Redazione) - Fatuari - 04 - Cecco, l’eretico

 
di Diego Riccobene
 
io voglio qui che il quare trove ‘l quia
levando l’ale da l’acerba mente
seguendo del filosofo la via1


La nascita di Cecco d’Ascoli fu evento circoscritto da leggende singolari. Alcune raccontano che, in quel 1269 – anno in cui Francesco Stabili di Simeone fu partorito nel mezzo di una strada ad Ancarano, d’improvviso, durante le celebrazioni di certune feste religiose a guisa pagana2 – iniziarono a sgorgare nuove sorgenti d’acqua e nuovi fiumi, acque termali bollirono. Anna Maria Partini e Vincenzo Nestler tentano di esplicare le dicerie ipotizzando una sorta di legame con la fonte a cagnà, «singolare sorgente termale la cui acqua sembra mutare la sua temperatura in senso opposto alle stagioni»3, ubicata presso la Rocca di Morro.
Una fama ancor più solida si costruì il Nostro come negromante, tant’è che molte attribuzioni di miracoli ineriscono alla sua figura, come la famosa costruzione di un ponte sul fiume Castellano nello svolgersi di una sola notte, talché si ricordò questo monumento come «Ponte di Mastro Cecco» (o, più prosaicamente, «Ponte del Diavolo»).
 
Ma che Salaria, che ponte romano!
Questa è la via che fece l’Ascolano;
La fece Cecco in una notte aprenno
Tra lampi e tuoni il libro del comanno
 
Il summenzionato «libro del comando» attirò attenzioni e fascinazioni: tomo che, tradizione vuolsi, Cecco portava sempre con sé e che gli permise di controllare gli spiriti dell’aria. Innumerevoli ipotesi circolano in merito al come l’autore de L’Acerba fosse entrato in possesso del manoscritto portentoso e certamente alcune tra esse esondano nel fiabesco, pur con le contestualizzazioni dovute. Di seguito una delle versioni tràdite: «Calatosi in fondo a una grotta con l’aiuto di alcuni pastori, ai quali premeva avere l’oro ivi nascosto, fu poi abbandonato laggiù senza alcuna possibilità di cavarsela da solo; mentre si muoveva a tentoni nell’oscurità del sotterraneo, si imbatté in un libro che egli prese ed aprì quasi meccanicamente: subito apparvero due “folletti” o gnomi che dissero: Comanda! Comanda! Tosto egli si fece portare all’aperto».4
Si è cercato di ricostruire la tradizione di questa narrazione folclorica anche grazie agli studi svariatissimi compiuti sulla figura di Cecco d’Ascoli nella sua accezione di poeta, sapiente, e financo di conoscitore di ragioni occulte5: tra coloro che se ne sono occupati, Fabio Tombari ha indagato per annodare i fili della questione a necessità topografiche, facendo riferimento ai Monti Sibillini come luogo consacrato a culti rituali e ricco di energie ultramondane, ove si apre la Grotta della Sibilla, a circa 2000 metri di altitudine, legata al culto della Sibilla Appenninica e alla Magna Mater Cibele.6 Qui Cecco avrebbe reperito il libro del comando, per poi battezzarlo nelle acque del vicino Lago di Pilato, come a suo tempo fece Simon Mago: questo riportano i versi del Dittamondo di Fazio degli Uberti («La fama qui non vo' rimanga ignuda / Del monte di Pilato, dov'è il Lago / Che se guarda la sera muda à muda. / Perché qual s'intende in Simon Mago / Per sagrare il suo libro la sù monta, / Onde tempesta poi con grand'imago / Secondo che per quei di là si conta»).
Il destino di Francesco Stabili l’avrebbe, infine, condotto al giudizio inquisitorio, e di conseguenza, al rogo. Cecco esercitava la mansione di astrologo e medico d’officio del duca di Calabria, quando fu arso «per cagione di eresia» il 16 settembre 1327 a Firenze: il motivo scatenante sarebbe stato un presagio negativo che egli lesse come oroscopo alla principessa Giovanna, preannunciando alla fanciulla una vita rotta dal vizio della lussuria. Molto più auspicabilmente, personalità come quella del medico Dino del Garbo, suo acerrimo rivale e detrattore, influenzarono la decisione degli inquisitori, nel consesso dei quali non va taciuta la presenza di Francesco da Barberino, uomo nient’affatto digiuno da esperienze esoteriche.7 Fatto da rimarcare è che, ancor più che dalla eresia sua propria dovuta alla pratica astrologica, Cecco fu travolto dal movimento che aveva condotto alla destituzione dell’Ordine Templare, le cui posizioni gnostiche in fatto di culto ne deragliarono i favori presso la chiesa romana, proprio in quegli anni.
Durante il processo avrebbe avuto occasione di smarcarsi dal detrimento della dannazione facendo abiura, che però mai si materializzò, anzi fu da lui affatto rifiutata con la nota affermazione «L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo».
Quel che è capitato a metà tra queste curiose e triste faccende, non è cosa di poco conto. Cecco era uomo di cultura ed erudizione tra i più rispettati del basso medioevo, e come trasmettono le cronache di umanisti e studiosi che ne ripercorsero le gesta (la più parte d’epoca rinascimentale, come Angelo Colocci), ricoprì la carica di medico ad Avignone alla corte di papa Giovanni XXII, fu titolare di una cattedra a Bologna – ove avvenne la prima disgraziata accusa di eresia che lo costrinse ad abdicare – e in seguito, per l’appunto, ospite della corte d’Angiò; è noto il legame di profonda amicizia che intrattenne con messer Durante in persona («et io ho visto i sonecti che si mandavano» riporta Colocci)8, il quale lo stimava al punto da volerne consultare il parere per sciogliere dubbi spinosi in ambito astrologico, e con altre eminenti personalità che animarono la congerie culturale del Dolce stil novo.
A tutti gli effetti, L’Acerba è un libro rivelatorio e supremo. Non polito, non ritmicamente facondo, non linguisticamente geniale come la Commedia, questo pare chiaro; pur tuttavia latore di quella densità di pensiero, di quell’amore teleologico per la natura ascosa dei fatti e delle essenze presenti in natura e nei cieli, di cui solo gli intelletti sottili saggiano il sapore, desiderandolo. Il poema didascalico di Cecco d’Ascoli dipana un sistema di terzine incatenate atte a enciclopedizzare la vita (e non solo), come tradizione medievale ben voleva, ma dotandolo di una forma ancor più briosa e complessiva: non temo di dire che L’Acerba possa somigliare essa stessa a un libro del comando. Benché non sia questa la sede per approfondirne la sapienza sottesa, è difficile trascurare le profonde nozioni astrologiche, arte di cui Stabili era magistro – cresciuto alla scuola tolemaica dei Tetrábiblos, del Sacrobosco e dei filosofi islamici, tra i quali cito almeno Alcabizio9; le lunghe inchieste del bestiario e del lapidario ivi contenuti (quest’ultimo, uno dei più significativi sforzi in versi di classificare pietre e metalli, secondo solo all’opera di Marbodo di Rennes), che posano polimorfici strati di sapere, scientifico e sottile, a indagare la rete occulta di sensi e nature foraggianti il cosmo intiero.
Giusto dalla sezione acconciata a bestiario traggo questa breve carrellata di animalia, sempre mossi dal piacere dello scoprire, con il fare dell’esperimento scientifico e con l’arguzia del libero cercatore:
 
La salamandra, che nel foco vive
E l’altro cibo la sia vita sprezza
Non sono in lei potenze passive
Ardendo si rinuova suo coverta;
Così natura li pose fermezza,
che vuol che in fiamma giamai si converta
 
(L’Acerba III, VII, vv. 1-6)

E il suo pie’ dextro legato al sinistro,
e ciò converso, tolle gran dolore.
Anche d’un'altra cosa t’amaestro:
la polvare d’ossa molto vale:
con celidonia risulta valore
che priva di langor oni animale.
 
(L’Acerba III, XVIII, vv. 19-24)

Ammaestramenti simili a un compendio di magia naturale intorno a salamandre e «voltori», li si trova nel De occulta philosophia di Cornelio Agrippa, apertamente ispiratosi alle opere del poeta ascolano.
Si consideri che il titolo L’Acerba, con ogni probabilità riferentesi allo stato immaturo della coscienza dell’uomo non toccato, o fiaccamente sfiorato, dalla luce della sophìa, potrebbe anche rievocare la pronuncia dialettale la cerva, animale investito a sua volta di una molteplicità di significati mistico-simbolici, soprattutto in ambito ermetico/iniziatico.10
Ancor più fascinosi trovo i capitoli dedicati alle pietre, da sempre legate alla visione trascendente dell’óntos.
 
El terzo cielo con secondo agate
negra la forma colle bianche vene,
e l’altre con sanguigne variate.
El fiume Agate, che Cicilia bagna,
coll’altra la qual ha sanguigne macchie,
conforta li occhi e là la sete presta.
 
(L’Acerba III, XVIII, vv. 19-24)

Lascio l’esegesi dei passi presentati alla sottigliezza del lettore, e sottolineo il sentore immaginifico con cui il loro autore si avventura in cerca delle cause prime dei fenomeni, senza voler giustificare il fine dei procedimenti che egli medesimo descrive: «io voglio qui che il quare trove ‘l quia». Citando nuovamente Partini e Nestler: «è il piano terreno, quello delle potentie sensitive, cioè il mondo sensibile che Cecco vuole indagare scientificamente».11
In effetti non siamo lontani dal vero se definiamo lo Stabili come uno degli antesignani del metodo scientifico, capace di pervicacia esecutiva e forza dottrinale: il di lui invito allo sceveramento del problema gnoseologico si fa strumento di eternalità, capace di vincere il decadimento. Tuttavia, non ne se ne carpisce l’opera fermandosi all’indagine scientifica, che i tribunali inquisitori avevano comunque rifiutato di vagliare. Si tratta, viceversa, di riconoscere che la trascendenza, come tensione verso quelle sfere – sostanze separate, o intelligenze «le quali la volgar gente chiama angeli» (Dante, Convivio, trattato II, IV, 2) – costituisce membro lecito e ineludibile della quête filosofica che ha tentato di leggere l’arcano della realtà, i misteri di vita e morte – dall’antichità al Medioevo come nel Rinascimento, e per vie altre e nascoste, anche in epoca successiva.
Cecco questo sapeva, e non abiurò. Affrontò la fiamma. Ricordava, da buon alchimista quale lui era, che il sapere lo si insegna, ma non lo si divulga: «Chi solver non sa, né assottigliare / corpo non tocchi. né argento vivo».12
Alcuni testimoni erano pronti a sostenere che Francesco Stabili di Simeone non fosse morto in quel rogo; che la sua anima avesse continuato a vagare negli interstizi sottili. Curiosamente, la dipartita del rivale e oppositore Dino del Garbo si registra pochi giorni dopo l’esecuzione, il 30 settembre 1327.
______
NOTE

1 Questo, come gli altri passi di L’Acerba di seguito riportati, sono tratti da: Cecco d’Ascoli, L’Acerba. Secondo la lezione del codice eugubino del 1376, Comune di Ascoli Piceno, 1971.
2 Si parla di culti beneficianti una dea locale di origine celtica, assimilabile per sincretismo alla Diana romana.
3 Anna Maria Partini, Vincenzo Nestler, Cecco d’Ascoli. Poeta occultista medievale, Ed. Mediterranee, Roma, 1979, p. 18.
4 Ibid.
5 Cfr. Primo Convegno di studi su Cecco d’Ascoli, celebrato ad Ascoli Piceno nel 1969 a celebrazione dei 700 anni trascorsi dalla nascita del poeta.
6 Gli stessi luoghi ricevettero ancora visite illustri: Il Guerrin Meschino e Tannhäuser, fra gli altri.
7 Come noto, Barberino fu uno degli adepti alla società dei Fedeli d’amore, cui Dante, Cecco, e numerosi altri stilnovisti erano affiliati.
8 I rapporti con Dante, tuttavia, si inasprirono col tempo a causa di dissapori e vedute divergenti. Non mancano passi de L’Acerba interpretabili (penetrando nel sottotesto, ma nemmeno così velatamente) come pungenti strali scagliati al poeta fiorentino.
9 L’astrologo arabo Abû al-Saqr al-Qabîsî 'Abd al-'Azîz ibn Uthmân (X secolo), di cui Cecco commentò l’opera De principiis astrologiae.
10 La Cerva era inoltre simbolo di riferimento della setta dei Fedeli d’amore.
11 Anna Maria Partini, Vincenzo Nestler, Cecco d’Ascoli, op. cit., p. 75.
12 Frate Elia e Cecco d’Ascoli, Sonetti alchemici – ermetici, Casa editrice Toscana, San Gimignano, 1930, p. 13.
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