(Redazione) - Fisiologia dei significanti in poesia - 05 - Per i principi di una percezione
di Giansalvo Pio Fortunato
L’onesta
responsabilità ontologica, che è richiesta dal far poesia (in
quanto completo espletamento poietico), non affonda le sue radici in
un moralismo valoriale astratto e metafisico. Da ricollocare in
questi termini, infatti, è il senso stesso dell’ontologia,
vista finalmente oltre ogni mero immanentismo o percorso di non
esaurimento della persistenza dell’Essere. Ciò che infatti si
comprende poco o per nulla è, senza dubbio, l’evidenza di una
finitudine ineliminabile o, meglio ancora, di un continuo perpetrare
una lucentezza sbiadita entro l’identità dell’esistenza.
Ragionare sull’Essere, a maggior ragione in poesia, non significa
in alcun modo valicarsi entro una radice di cronico illuminante
idealismo che, ponendo la roccaforte nella sicurezza di una
razionalità traducente, riesca a spiccare in volo oltre la
materialità del fatto pratico – si potrebbe anche omettere il
pratico
- dell’esistenza,
ma designa la zona tormentosa dello sperimentato e, dunque, la
trascendenza come inerenza che è capace di collocarsi nella ragione
unica di un’esperienza che diviene conoscenza della cosa totale
oggettiva, ma anche e soprattutto relazione intrinseca che si coniuga
mirabilmente tra il relativo
e
l’assoluto
e che è capace di costruire un’impalcatura che renda manifesto
l’Esserci come ineliminabile, in virtù del percorso di
presenzialità e parzialità esistenziale - conoscitiva. In che
senso? Nel senso della sensazione.
Molto
spesso, infatti, ci si dimentica che il grande merito dell’ontologia
sia, più che il recuperare un Essere perduto – elemento
assolutamente innegabile per il suo fondatore –, l’aver
finalmente chiarito l’intramontabile ragione [1] fenomenologica
dell’esistenza. In tal senso, allora, il reiterare di una
discontinuità entro l’esistere non significa l’espiare una colpa
antica o l’esigenza di una ricollocazione gerarchica, ma si
riferisce all’assumere consapevolmente la propria inerenza
(tanto
suona meglio nel più dinamico ed elementare être
a)
e viverla entro tutte le sue caratteristiche date. Ciò implica,
quindi, rintracciare una piena ricollocazione del proprio esistere e,
pur volendosi mantenere fedele a quel dettato platonico primario [2],
rovesciare l’esistenza concepita precedentemente, per renderla
un’esistenza esistita. È così che si valica non solo ogni
fantasticheria a-pragmatica, ma si arriva in maniera consistente ad
una matericità molto molto più forte di chi si ponga entro la
materia. È questo, certamente, un percorso abbastanza paradossale,
in apparenza, ma è un percorso veramente possibile. Se, in soldoni,
si capisce di inerire
il mondo,
dunque di essere fatto
al mondo / dal mondo / per il mondo / nel mondo,
si comprende anche inevitabilmente che il mio essere (Esser-ci) è
mondo, esiste nelle branchie del mondo, è cellulato dal mondo; ma
significa anche adottare un fare analitico descrittivo. Ha senso,
infatti, formalizzare o, astrattamente e meccanicamente,
essenzializzare le cose, se noi stessi siamo le cose? Ha senso
formarci, quando noi stessi già siamo formati? Tale irriducibile
datità, allora, non modula l’esigenza di guardare oltre ciò che
già è, ma significa imparare
a guardare oltre ciò che vogliamo che sia, per un ciò che sia dato
e che dunque sia.
La forza descrittiva, allora, non esautora la capacità dell’uomo
di elaborare, ma le dà un atteggiamento di penombra che si articola
nel poieo;
dunque nel portare
innanzi a sé,
nel
portare alla luce.
È così, quindi, che si sfalda ontologicamente un’epifania
ex-nihilo, per essere – come già detto in precedenza – un
ministero aletheiatico;
quindi, un percorso che riconcilia l’uomo all’ombra e gli
trincera ogni atteggiamento di chiarità totalitaria, di trasmissione
complessiva di un tutto donatosi. Perché la nostra è radicalità
prospettica e prospettivistica,
esiliata da ogni fondamento che voglia farla crescere a dismisura
come istinto ad una razionalizzazione estrema o ad un percorso
meccanicamente a tappe che veda nella parola (per esempio,
soprattutto se si fa riferimento alla poesia) la sublimazione di
questa profonda umanizzazione, che sia compimento positivistico
dell’essere umani. La radicalità prospettica, infatti, si riveste
di un essere
umani
in quanto esseri
caratterizzati nella loro umanità,
che è limitatezza, viscosità, istinto, volizione e volontà,
raziocinio, ma soprattutto percezione
e terreità.
Riflettere in maniera così marcata su uno stampo esistenzialistico
pare essere, più che una discussione problematica sulla fisiologia
del significato poetico, l’estratto di una lunga faglia riflessiva
nella poesia che fa capo a Pessoa, Nietzsche, Zanzotto, Celan. Ed
invece? Invece, noi ci caliamo nella scheletricità del contenuto,
nella sua genealogia: lo decostruiamo e lo riconduciamo alla sua
matrice primigenia. È l’esistenza,
infatti, il
massimo riducente ed il moltiplicatore di ogni esperienza poetica.
Può, infatti, esservi poesia, se non esistono essere umani? Può
esservi poesia identica, se esistono essere umani diversi? Queste
sono domande essenziali che riconnettono il discorso poetico ad un
filone intramontabile: come ci si può attendere di poter descrivere
la poesia, i suoi significati, i suoi miracoli e le sue dannazioni,
senza riflettere sulla fonte d’ogni cosa? In tal senso, quindi, non
si vuole sviare l’analitica perì-poetica, non si vuole aderire ad
un’Accademia dell’Essere, ma si vuole professare l’essere (non
professorare)
con l’intento di comprendere la terreità e percettività poetica
in maniera del tutto onesta e radicale, consci che questo sforzo
generi consapevolezza in ogni poeta e che faccia adottare una
profonda cura deontologica verso il far poesia.
Abbiamo
chiarito, dunque, che l’essere umani è percettività e terreità e
mi preme, anzitutto, partire da quest’ultima caratteristica
ontologica per certificare un dato insondabile: l’essere
umani non è mai scisso dall’essere di terra e carne,
di respiro ed aria, della grande fonte che è instaurata nella
fattiva e materica partecipazione e coesistenza al mondo. Per cui
l’essere umano (dunque,
anche e soprattutto, la poesia)
è ossa, è terra, è fisiologia, è anima che si compone della sua
stessa posizionalità e presenzialità. L’uomo si dispiega
totalmente nel momento in cui assume radicante consapevolezza
dell’esaurimento di ogni trionfalismo gerarchico, per rivedersi
intessuto in una gemmazione più ampia, in quel quadro proprio di chi
è scolpito nel marmo ed è marmo, o – attualizzando – è
impastato dalla terra ed è terra. Tale assunto, precisiamo, non
fornisce l’assist ad un meccanicismo positivistico, capace di
rivedere la sola tracciatura biologica entro l’orizzonte umano, ma
è l’assunzione di un dato di fatto: separare
l’essere umano dalla sua dimensione di carne e sangue o separare
l’essere umano dalla sua applicazione ordinante e raziocinante
rappresenta un reato gravissimo contro l’umanità [3].
L’essere
umano, come esser-ci
in quanto umani,
ha anzitutto l’obbligo di riconoscere la propria naturale andatura
a prospettive e, entro di esse, il riconoscimento di un
prospettivismo. In che senso? Nel senso che l’esser-ci umano è
inevitabilmente patologico
ed univocamente costruttivo.
Per patologia – lo precisiamo – si intende un discorso molto più
ampio: pato-logico
è discorso di un ferimento,
di una mutazione di sangue, di una tiratura ritta entro la carne, di
una lotta perpetua che sfianca se stessi e l’alter; pato-logico è
l’egemonia di una presenzialità senza filtri che impone la nascita
di nuovi mondi coesistenziali, di nuove ferrigne tensioni che, in
quanto tali, riconoscono l’indissolubile esigenza di un’oggettività
che si riconosca nel fallimento di un’assoluta riduzione
fenomenologica
[3]. Terreità è, quindi, l’esistenza colta
nel suo essere naturalmente impressionata ed impressa dal mondo, nel
suo discendere entro il meandro di una molteplicità di relazioni, ma
anche il suo essere inevitabilmente portatrice dell’istaurazione di
un esistere proprio (esser-ci). Tale
concretezza è un patire inevitabile, una costruzione estensiva e
farraginosa che dimostra la fatica del predicato esistenziale: la
demarcazione stessa della propria esistenza, infatti, non rappresenta
la linearità di un tempo che passa, ma lo smezzamento di un tempo
che si alimenta continuamente, che è slabbrato e ricomposto ai
fianchi, magmaticizzato nel suo interno, che è ampiamente
riconosciuto dall’uomo perché l’uomo ne è agente: in quanto
agito,
secondo l’azione dell’altro, ed in quanto agente,
all’azione dell’altro. Vista in tali termini, quindi, la terreità
è materica, concreta apertura faticosa di varchi, segnatura
vigorosa, manifestazione evidente della sua aletheiaticità,
insopprimibile condizione di chi vive corporalmente, quindi come
sentire
entropico al mondo e come posizionamento gravitate al mondo. La
sottolineatura di tali caratteristiche, tuttavia, non deve, lo
precisiamo, essere erroneamente disgiunta dalla poesia, ma deve
esserne il motore,
essendo la poesia generata da chi esiste; dunque da
chi è di terra.
La
terreità propria dell’esser-ci implica, allo stesso tempo,
l’univocità
costruttiva:
posso io esistere al posto dell’altro? L’altro può esistere al
mio posto? In questo modo, non si alimenta un atteggiamento
solipsistico, un io ingiustificatamente tracotante che assimila tutto
al suo volere e che comanda il mondo, ma si assiste piuttosto alla
direzionata
potenzialità dell’io che,
se da un lato non può tutto e non può esistere tutto e secondo
tutto, dall’altra ha
pienezza di senso nel suo esistere e
può diemicamente esser-ci. Questo arbitrato, allora, fornisce chiara
spinta propulsiva ad ogni individuo che esiste e, a maggior ragione,
ad ogni poeta che esiste. Perché – e può sembrare banale – ad
ogni poeta è richiesto prima un alto
grado di esistenza personalitaria e
poi si fa ricorso alla scrittura poetica. Il riferimento stesso,
infatti, ad un alto
grado di esistenza e
non al semplice esistere in quanto scrittore
di una raccolta poetica (tra
le tante cose, questa linea distintiva esistenziale ha perso la sua
forza minossica a causa dell’assenza di una critica letteraria
severa e a causa dell’incapacità autoanalitica di chi scrive, in
concomitanza con il pullulare dell’industria dei libri) fa
intendere come sia richiesto a maggior ragione al poeta una
qualificazione
di esistenza ben specifica.
Il poeta, infatti, è minatore della propria presenza terriera,
costruisce secondo la propria presenza terriera e, solo nel giudizio
attento della propria esistenza, può manifestare adeguatamente la
propria presenza terriera. È qui che si inserisce inevitabilmente
l’univocità
costruttiva di
cui sopra. Il vissuto, infatti, è vissuto in quanto intrinsecamente
univoco. Anzi, per affermarlo in maniera ancora più forte,
l’intrinsecità del vissuto – la sua corsa entro la nicchia
personale – è univoco. È una questione di vocabolari, di portate
di senso, che sono abituate e sono composte non per essere ponti
blandi o arterie trasmissive, ma foci che alimentano flussi e
modificano la materia già pervenuta. Poiché, infatti, entro
un’ottica intenzionale l’oggettività è inscritta entro
l’intersoggettività – per cui se l’io in se stesso non può
dare da sé il senso complessivo, anche il mondo in se stesso non può
dare il senso complessivo – è inevitabile che la ferita che nasce
dal viversi (viver-ci) è altamente costruita e già comunicata. Per
intenderci: anche la più forte, in termini di intensità, ed
elementare, nella sua composizione, tra le percezioni non rappresenta
la semplice modificazione passiva dell’io, ma risulta, seppur non
ancora costruita secondo registro di parola, una ricezione ed
edificazione di senso portata da una soggettività che, seppur
inter-soggettiva (non assoluta), non riceve empiricamente il mondo,
ma lo riattualizza secondo se stessa. Questo fa sì che la terreità
si congiunga inevitabilmente alla percezione e che la percezione, che
naturalmente è riconosciuta come la base dominante del far poesia,
sia rimodulata.
Così
cosa otterremo? Otterremo una poesia che cambia volto, che si
riscopre!
____
NOTE
NOTE
[1] ragione: da intendersi non come base della razionalità, ma come ordinamento, logos.
[2]
dettato platonico primario:
quello ideale, che soggettivizza e riconosce la perentorietà di chi
vive, pur in sana rimodulazione che non riconosce la parola ed ogni
altra cosa come emanazione ideale, ma la rimodula all’onnipresenza
del phantasmata.
[3]
riduzione
fenomenologica:
la grande vittoria, a patto che non si ammetta l’indagine
fenomenologia di Edith Stein, è il suo insuccesso. Come chiarisce a
tal proposito Merleau – Ponty nella sua introduzione a
Fenomenologia
della percezione,
Husserl ricava dall’impossibilità eidetica, la certezza di essere
sulla strada giusta e di dover ricorrere ad un’indagine
fenomenologica. Volendo ammettere lo sforzo di intuire semplicemente,
questo sforzo è vano nel momento in cui il trascendimento non è
possibile, essendo l’uomo pienamente calato nel suo mondo e non
potendosi separare da esso. Come fa notare ancora lo stesso filosofo
francese, l’inerenza heideggeriana altro non è che, seppur con
indirizzi e premesse distinte, la riduzione fenomenologica
husserliana. Husserl non può trattare una pura intuizione, Heidegger
non può trattare un Essere che non sia Esser-ci.
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