(Redazione) - A proposito della raccolta di Alessandro Moscè "Per sempre vivi" (Luigi Pellegrini ed., 2024) - nota di lettura di Sergio Daniele Donati

 
 

Quando la parola poetica manifesta appieno la sua natura dinamica e disegna davanti agli occhi del lettore il suo essere percorso vitale, circolare e a spirale, possiamo dire, a parere di chi qui vi scrive, di essere di fronte ad una scrittura alta. 
Ma, intendiamoci, questo inflazionato  aggettivo, questo richiamo all'altezza, non deve essere inteso come figlio di un discrimine stolto facilone tra il bene e il male in poesia.
Spero mi diate abbastanza fiducia da non credere che io possa cadere in simile tranello. 
Definisco, tuttavia, come "alta", al di là dei suoi esiti, la poesia che tende naturalmente all'elevazione sia di chi la scrive che di chi la legge, la parola, in altri termini, che svolge per autore e lettore essenzialmente una funzione etica e spesso lo sa fare percorrendo il crinale sottilissimo e impervio  che ha come periglio la caduta in  due abissi: in un poetare meramente descrittivo da un lato, in un dire legato al solo significato/ante, obliando ritmo e suono, dall'altro.
 
Alessandro Moscè nella sua raccolta "Per sempre vivi" (Luigi Pellegrini ed., 2024) mostra al lettore il passo lento e sicuro con cui condursi in questo passaggio stretto ed è capace con versi incisivi di colpire la mente dello stesso lettore che si trova, come sempre avviene con la poesia alta, a svolgere la funzione di darle completamento. 
Ogni dire sorge da due labbra (o da un pennino, se scritto) e si completa in chi lo riceve, certo.
Ma ci sono poesie in cui questo anelito al completamento della parola in mani altrui  è evidente e patente. È una sorta di chiamata all'etica del lettore che solo certe poesie e certi autori sanno esercitare. Quello in esame è tra questi, a mio parere.

Una carezza sul mio volto appena rasato.
Chi me la darà tra i tanti
per farmi tornare il tremore
nell'ansa dove corrono i soprapensieri? 

Quando un dire sulla fragilità e sul bisogno di accoglimento dell'uomo si fa domanda sottile, l'effetto di delicata comprensione è certo. 
Perchè la domanda è sempre atto di coraggio che contempla ogni risposta possibile e, come sopra si diceva, crea proprio nella mente e nelle fibre del lettore un anelito alla com-prensione che rifiuta la sicumera stentorea di un dire affermativo. 

Ogni punto di domanda sulla condizione esistenziale fragile e delicata umana è a mio avviso un dono che nella sua essenza manifesta la sua (dell'uomo) natura bambina, curiosa e preziosa. 
Ma l'autore sa mostrarci  anche un altro uso della domanda in poesia, che non manca certo di richiami a registri di maggiore potenza prorompente, come nella composizione che qui sotto si riporta.
 
Sono più veloci le parole o i giorni sfumati
per i commensali del Natale?
Chi discende in una primavera fuori tempo
nel bagagliaio del nulla
uomo o donna, anziani, all'insaputa dei figli?
Gli anni ripartiranno per i non viventi?
 
Sono queste domande che paiono scritte come moniti sulla pietra, a futura memoria e che l'Autore sa imporre alla mente del lettore come un richiamo alla responsabilità della parola e del ruolo (di genitori? di esseri umani? di lettori/interpreti? Quante etiche dobbiamo assumere nella nostra breve vita?)
Un incalzare di domande che paiono necessitare di un A.D.R. (a domanda risponde) dei verbali dei processi) o del silenzio di un lettore/imputato che cresce come cresce Caino di fronte alla domanda di D.o (Dov'è tuo fratello? Dove sei tu?)

Concludo questa breve nota di lettura ad un'opera che meriterebbe ben altri e più estesi saggi, con un testo che trovo centrale sia per modalità espressive e ritmiche che per significati e capacità di far spazio a pensiero e riflessione, dote questa sempre più rara nel panorama della poesia contemporanea. 

A voi l'invito a leggere l'intera raccolta più volte per assaporarne i paesaggi minuti e sottili che la rendono una preziosa gemma da non perdere. 


L'ansia è il sintomo dell'amore
non della resa
dei predestinati nel segno dello zodiaco
della strada che ci conduce al mare
a respirare la salsedine e l'odore della navi
che salpano verso l'Oriente.
Ogni giorno apre una ferita nell'uomo
ogni abbraccio ricuce i tessuti dell'anima
invocati nel cielo del conforto.
c'è sempre un incrocio per il bene comune
un gesto di attenzione che ripaga
dandosi un bacio
per divorare l'irrevocabile dispiacere.

Per La redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati
 


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NOTIZIE BIO-BIBLIOGRAFICHE SUL'AUTORE
(tratte dal web)

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, 2008), Hotel della notte (Aragno, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino), La vestaglia del padre (Aragno, 2019) e Per sempre vivi (Luigi Pellegrini Editore, 2024). Ha pubblicato il saggio narrativo Il viaggiatore residente (Cattedrale, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, 2012), L’età bianca (Avagliano, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, 2022, Premio Prata). Tra le altre pubblicazioni, l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, 2003), i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, 2004), Tra due secoli (Neftasia, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, 2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006) e la biografia Alberto BevilacquaMaterna parola (Il Rio, 2020). È tradotto in varie lingue e collabora con quotidiani e periodici.

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