(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 02 - Il "pregio" di Isabella Morra
di Gianni Antonio Palumbo
“Degno
il sepolcro, se fu vil la cuna, / vo procacciando con le Muse amate /
et spero ritrovar qualche pietate / malgrado de la cieca aspra
importuna, // et, col favor de le sacrate Dive, / se non col corpo,
almen con l’alma sciolta / essere in pregio a più felice rive”.
Sono versi della poetessa Isabella Morra, figura di spicco di un
fenomeno letterario, il petrarchismo, che nel Cinquecento vide, sulla
scia dell’esempio di Vittoria Colonna, il dispiegarsi di
interessanti esperienze di scrittura delle donne (Gaspara Stampa,
Veronica Gambara, Laura Terracini, Veronica Franco, Chiara Matraini e
altre). Pur nella varietà delle estrinsecazioni che lo connotarono,
il petrarchismo (nell’affermazione del quale un ruolo fondamentale
fu rivestito da Pietro Bembo) prevedeva una modellizzazione sui Rerum
vulgarium fragmenta declinata
lungo
un duplice versante. Da un lato, si riscontrava la tendenza
all’imitatio
stili,
che consiste nella ripresa di vocaboli, stilemi, rime, reti di
immagini care al cantore di Laura; dall’altro, si manifestava la
tensione all’imitatio
vitae,
soprattutto nella costruzione di situazioni similpetrarchesche
all’interno dei singoli libri di poesia. Non di rado, infatti,
assistiamo alla rappresentazione di vicende caratterizzate dal ritmo
errore-pentimento. Il primo risultava in linea con il giovenil
errore di
Petrarca, allontanatosi dall’assoluta dedizione a Dio per “amar
cosa mortale”; il secondo nasceva dal ripensamento che, pur
scaturito da circostanze contingenti (la morte di Laura), era
tuttavia a ben vedere già insito nelle premesse del ‘traviamento’.
Isabella Morra (1520-1546) era figlia di un colto barone favalese, Giovan Michele, costretto ad abbandonare la terra di cui era suffeudatario, perché nel conflitto tra francesi e spagnoli si era schierato con la parte soccombente. Si era trasferito in Francia con uno dei figli,
Scipione, coetaneus
di
Isabella, mentre a Favale (oggi Valsinni) era rimasta l’intera
famiglia, costituita dalla moglie Luisa Brancaccio e dagli altri
figli Marco Antonio, Decio, Cesare, Fabio, Camillo, Porzia. Nei suoi
versi Isabella tratteggiò Favale nelle forme di un locus
horribilis,
definendo quella terra “denigrato sito”. Lamentava la solitudine,
il disprezzo di cui si vedeva circondata, la barriera di
incomunicabilità che le impediva il dialogo con i fratelli. La
vicenda ebbe un tragico epilogo; a causa di uno scambio epistolare di
cui il reale contenuto non è stato mai effettivamente accertato, i
Morra credettero (dato tuttora non affermabile né smentibile) che
Isabella avesse una relazione con un gentiluomo spagnolo, per giunta
sposato con Antonia Caracciolo. Si trattava di don Diego Sandoval de
Castro, castellano di Cosenza e signore della vicina Bollita.
Petrarchista anch’egli, aveva dato alle stampe nel 1542 un libro di
rime, senz’altro non paragonabile qualitativamente ai versi
morriani, rimasti inediti finché l’autrice fu viva. La furia dei
fratelli condusse al delitto d’onore, non esente da ragioni
politiche, considerata la posizione filofrancese della famiglia.
Caddero vittime dei colpi di Decio e Fabio, con la connivenza degli
zii Cornelio e Baldassino, il precettore latore delle lettere,
Isabella stessa e il Sandoval de Castro.
Otto
sonetti e una canzone di Isabella conobbero pubblicazione nel 1552 in
un’antologia curata dal poligrafo Ludovico Dolce (Rime
di diuersi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss.
intelletti: Nuouamente raccolte, et non più stampate. Terzo libro,
Venezia, «appresso Giolito de’ Ferrari et fratelli»). Dopo
ulteriori stampe dei medesimi testi, sempre in florilegi, ancora
Ludovico Dolce, in Rime
di diversi signori napolitani e d’altri, nuovamente raccolte et
impresse. Libro settimo,
pubblicò gli altri cinque testi, nello specifico tre canzoni e due
sonetti. Di fatto le poesie di questi due momenti del corpus
(poi
ristampate da Lodovico Domenichi nel 1559 e nuovamente nel Seicento
dall’editore Bulifon) sono le uniche dell’autrice a esserci state
tramandate.
è
possibile che non ne abbia scritte altre, ma non è da escludere che
alcuni componimenti possano essere andati perduti o addirittura esser
stati distrutti dai fratelli assassini. Colpisce, peraltro, come un
canzoniere così esiguo possa presentare un problema filologico
stimolante; la canzone a Cristo, infatti, ebbe ben due stesure, tra
le quali quella dell’edizione del 1556 fu probabilmente figlia,
come scrive Francesco Tateo, di un «successivo lavorio formale
dell’autrice», che apportò miglioramenti «in termini di
politezza dei versi e di felicità delle immagini». Proprio il
confronto tra le stesure di questa canzone dimostra come non sia del
tutto fondata l’idea crociana che voleva Isabella aliena da
«bellurie letteraria» e contribuisce a ridimensionare le tante
letture romantiche dei versi morriani, spesso tendenti allo
psicobiografismo. Isabella Morra era ben lontana da una scrittura di
getto configurabile quale mero sfogo intimo; cesellava i suoi versi
per dissimulare tasselli troppo scoperti del processo imitativo;
riconosceva e sostituiva versi dall’incedere claudicante (si veda
“o a le tempesti porto”); operava quelli che potremmo definire
compensi contigui o a distanza allo scopo di evitare ineleganti
ripetizioni. Se la sua poesia ha il dono della castiglionesca grazia
– pur essendo il suo, come evidenziato da Isabella Nuovo, un
canzoniere inscritto sotto il segno della dis-grazia
–,
è perché in lei avverti il dono del danzatore che disegna linee
armoniose, celando nella sprezzatura lo sforzo che la bellezza di
quei movimenti ha comportato.
Che
la poesia di Isabella Morra abbia un fascino peculiare è indubbio; è
questo che ha condotto alla sua riscoperta prima da parte di Angelo
De Gubernatis, ancora tuttavia troppo proteso a forgiare Il
romanzo di una poetessa,
e poi di Benedetto Croce. Quest’ultimo non solo ebbe il merito di
accendere i riflettori su un’autrice pressoché dimenticata
segnalandone il valore, ma ha anche individuato e additato agli
amanti delle lettere i testi a suo avviso più validi, su cui
peraltro sentiamo di convergere. Da allora c’è stata graduale e
crescente attenzione ai versi di Morra, con ben due edizioni
critiche, la prima di Antonietta Grignani e la seconda di Tobia
Raffaele Toscano, e la pubblicazione di edizioni commentate (oltre
alla nostra – Stilo 2019, ristampata nel 2023 –, ricordiamo quella di Gaetana Rossi e quella con note e commento di Giovanni Caserta).
La vicenda di Favale ha ispirato
riscritture teatrali, narrative, poetiche (la più recente il
poemetto di Silvio Raffo nel volume I
fiumi di Isabella)
e cinematografiche; per l’approfondimento di quest’aspetto ci
permettiamo di rinviare al nostro saggio on line
Isabella
Morra nella ricezione contemporanea. Teatro, cinema, letteratura
(https://ojs.cimedoc.uniba.it/index.php/rinamod/article/view/1894).
Sulla piena intelligenza dell’opera morriana ha pesato in molti
casi la mitopoiesi fiorita intorno alla figura di Isabella Morra, in
una semplificazione degli effettivi dati biografici dell’autrice.
Si è voluto spesso fare di Morra una reclusa nel castello di Favale;
questa narrazione delle vicende, complice la rete che tende alla
proliferazione di articoli non sempre documentati, è sopravvissuta
nonostante le scoperte portate all’attenzione della comunità
scientifica negli ottimi volumi dello studioso Pasquale Montesano.
Isabella Morra sarebbe stata dama di compagnia di Felicia Sanseverino
alla corte di Bisignano, caratterizzata da gran fervore culturale;
dopo il matrimonio di quest’ultima l’avrebbe seguita a Matera,
come dimostra il documento custodito nell’Archivio di Stato di
Napoli, in cui si fa riferimento alla mula che “co(n)dusse Isabella
Morra in Matera”, costata cinque carlini.
Forse,
dunque, la vicenda di Morra necessita di essere narrata diversamente,
partendo dall’ambizione che domina il suo esiguo canzoniere,
inscritta nella ricorrenza della parola pregio,
il cui campo semantico è presente ben otto volte in appena dodici
testi. Il motivo del praise,
dunque, la volontà di sentirsi apprezzata in un contesto più
stimolante di quello, per lei asfittico, di Favale risuona più
volte, rivelando il sogno di questa giovane donna: conseguire la
fama, il prestigio, grazie alla poesia… Non ingannino le
dichiarazioni di umiltà, con il riferimento alle rozze vesti di cui
i suoi componimenti si velavano. Basti pensare che Petrarca congedava
la canzone n. 125 con queste parole ed era pur ben consapevole della
qualità del proprio poetare: «O poverella mia, come se’ rozza! /
Credo che tel conoschi: / rimanti in questi boschi».
Il
comporre versi alla maniera del Petrarca era l’unico sistema per
conseguire il tanto desiderato pregio;
eppure una sorta di aporia si apriva nel percorso di Morra. Quale
amore avrebbe potuto cantare, lei che non era una cortigiana né una
creatura socialmente borderline
(quindi
non troppo preoccupata della propria rispettabilità) e che non aveva
un promesso sposo né purtroppo ne avrebbe mai avuto uno? L’unica
possibilità era collocarsi lungo il solco del solo “amore perduto”
che le era lecito esprimere: la nostalgia della figlia per il “padre
caro”, partito lontano, in quella mitica Francia in cui Morra
desiderava approdare (si leggano in tal direzione i versi dedicati a
Luigi Alamanni). Seconda opzione era il dar voce all’amore per
Cristo, farsene idealmente sposa. è
quel che di fatto avviene nella canzone a Cristo, cui la poetessa
dedicò particolari cure; in essa Isabella pennellava, in ossequio al
topos del catalogo delle bellezze, la beltà del Messia con
riferimento a elementi, meno comuni e propri del cosiddetto long
canon,
quali il sensuale indugio sul piede.
La
Laura petrarchesca era però creatura dall’aura ambivalente; non le
mancavano tratti di “fera” che, per quanto «bella e mansueta»,
con alterigia respinge il poeta. Laura era insomma Musa e Contromusa,
tratti questi ultimi non scivolati sul padre, abbandonante
incolpevole, ma concentrati sui due bersagli dell’invettiva
morriana. Uno dei due è rappresentato dalla Fortuna;
programmaticamente protesa a deprimere la virtù e innalzare «ogni
depresso ingegno, ogni vil core», la dea della volubil
rota è
proprio per questo nemica giurata di Isabella. Nella nona canzone,
un’apostrofe ininterrotta alla Fortuna, Morra introduceva nel
congedo una punta di ironia, aspetto generalmente trascurato
nell’inflazione di romanticume e melassa che spesso soprattutto il
web ha appiccato a questi testi. «Ogni mal ti perdono, / né l’alma
si dorrà di te giamai / se questo sol farai / (ai, ai, Fortuna, e
perché far no ’l dei?) / che giungano al gran Re gli sospir miei».
La scrittrice si dichiarava pronta a perdonare in toto la Fortuna, a
patto che facesse giungere i suoi “sospiri”, fuor di metafora i
“versi”, in Francia. E dobbiamo dire che almeno in questo, pur
nella sventura che colpì la ragazza, la Fortuna ha mantenuto i suoi
patti.
L’altra
Contromusa è Favale, epicentro di una dantesca “valle inferna”,
borgo che pure ha tributato postumi gli onori a Isabella, dando vita
a un bel parco letterario, uno dei fiori all’occhiello della
splendida Basilicata. Proprio nella perpetuazione del ritmo
errore-pentimento, uno dei componimenti di Morra, Scrissi
con stile amaro, aspro e dolente,
evidenziava da parte della poetessa l’acquisizione di
consapevolezza di aver concentrato troppo la propria attenzione su
elementi transeunti, in
primis quell’aspirazione
alla gloria che aveva condotto – nella sua negazione – alla
querela
contro la Fortuna. Ora, che l’anima mirava al bel
thesoro eterno,
ben diversa sarebbe stata la modulazione del canto. Infatti, nella
Canzone alla Vergine, generalmente immancabile in un canzoniere
petrarchista, Morra trasfigurava anche Favale, garantendone la
mutazione da locus
horribilis a
ideale locus
amoenus.
L’impervietà di quelle terre l’aveva infatti condotta a
sperimentare la solitudine degli anacoreti additandole una «via
dolce e spedita» per giungere al cielo. Persino il Torbido
Siri,
interlocutore del testo morriano forse più bello, modellato
manieristicamente sulle petrarchesche Chiare,
fresche e dolci acque,
non era più il carnefice che s’alimentava del pianto della donna,
ma era con gentilezza apostrofato nei versi alla Vergine «Sinno
veloce». Al carattere torbido di quelle acque si era sostituita la
claritas
delle
«chiare fonti e rivi». La mutatio
animi aveva
portato a guardare il paesaggio con altri occhi, ma quello che di
certo non viene mai meno nelle Rime morriane è il sostrato culturale
dell’autrice: la tendenza a dialogare con le fonti, arabescando; il
gusto di riprendere modelli e ribaltarli. Si pensi al secondo
sonetto, dedicato a Giunone pronuba (su questo molto interessanti le
osservazioni di Daniela De Liso), in cui l’attacco Sacra
Giunone
riprende fonicamente il Cara
union di
un testo di Vittoria Colonna; se in quella lirica Colonna chiedeva di
essere liberata dal carcere terreno o dall’amore impossibile per un
marito ormai defunto, Morra, nel suo sonetto, domanda esattamente
l’opposto alla dea. Le chiede di essere sottoposta al laccio
dell’amore lecito e divenire coniuge di uno dei suoi «più cari et
humili soggetti». In Torbido
Siri,
per addurre un altro esempio, si riprendeva la situazione –
immaginaria – di RVF
126, con Laura che tornava sulle rive della Sorgue e scopriva la
morte del poeta; all’icona laurana era sostituita la figura del
padre di Isabella, Giovan Michele. Se l’invenzione del testo si
basava sul topos, petrarchesco, del fiume che s’ingrossa delle
lacrime del poeta, il finale – potenza della magia verbale –
vedeva Isabella stessa quasi metamorfosata in fiume: «Me accreber
sì, mentre fu viva, / non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella».
Nel testo, memorabile, sembra di ravvisare anche un dialogo a
distanza tra la scrittrice e Ludovico Ariosto. L’espressione crudel
procella,
così come la iunctura
esempio miserando e raro,
rinviavano a luoghi del Furioso
riferiti
ai personaggi di Isabella e Zerbino. In tal modo, Morra non solo
recuperava l’immagine dell’Isabella ariostesca, esempio di
costanza e virtù, ma poteva anche alludere alla profezia che Ariosto
aveva posto sulle labbra dell’Eterno con l’intenzione di
celebrare la Signora del Rinascimento, Isabella d’Este. Tributando
un omaggio all’infelice amante di Zerbino, Dio aveva esclamato:
«Per l’avvenir vo’ che ciascuna ch’aggia / il nome tuo, sia di
sublime ingegno, / e sia bella, gentil, cortese e saggia, / e di vera
onestade arrivi al segno: / onde materia agli scrittori caggia / di
celebrare il nome inclito e degno; / tal che Parnasso, Pindo ed
Elicone / sempre Issabella, Issabella risuone». Il nome di Isabella,
definito nel Furioso
«inclito
e degno» era invece in Torbido
Siri etichettato
quale infelice,
così come, se Zerbino era «di virtù esempio e di bellezza raro»
(XX, 117, 5), la giovane donna si definiva al contrario «esempio
miserando e raro». A lei non era stata concessa la gioia di chi si
sente in sintonia con l’ambiente circostante e percepisce di essere
in pregio in
esso; non le restava dunque che affidare il nome
infelice ricevuto
in sorte alle acque del fiume Siri, perché rinnovellasse il suo
amaro caso a chi desiderasse ascoltarlo.
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