(Redazione) - Fisiologia dei significanti in poesia - 06 - Solo così, la poesia è di coscienza!

 
di Giansalvo Pio Fortunato
 
Riservare alla poesia dei risvolti estremamente pratici e pragmatici, dopo le istanze ontologiche precedentemente analizzate, pare essere non solo una forzatura, ma anche un ritorno all’ovile abbastanza forzato. Sono queste, infatti, le motivazioni che si adducono rispetto ad un’ostinata e recalcitrante politica poetica che preclude al verso ed alla sua genesi un risvolto pienamente ontologico: non è forse l’Essere il grande residuo di un approccio vitalmente platonico? E la scia platonica, in fondo, non rifiuta deliberatamente l’opportunità poetica come reale possibilità conoscitiva, designandola piuttosto come menzognera? È evidente, allora, che questo sforzo di analisi programmatica è tutt’altro che uno sforzo banale o decontestualizzato o, peggio ancora, appartenente alla vecchia scuola. Il grande problema, soprattutto dei nostri tempi, è l’insensatezza genealogica con la quale ci si riferisce alla poesia: parlare di insensatezza, infatti, può creare degli storcimenti o delle razioni rabbiose nei cultori magnificenti dell’arte. Questa ingenua posizione elitaria e sacerdotale, rispetto al fenomeno poetico, è un atteggiamento non solo naturalmente atteso, ma anche dichiaratamente manifesto in chi fa delle poesia il pane di una sublimazione quotidiana. Può, infatti, ricadere nel disincanto quel movimento creativo che, in quanto poieo, possiede la medesima attuazione di un momento creativo, al pari della nascita naturale? In soldoni: possiamo, per chi crede, intendere un Dio che abbia plasmato il mondo in sei giorni all’infuori della sua eccezionalità? Possiamo compiere un viaggio entro l’organigramma plasmante di Dio, riducendolo ad una fenomenicità? Possiamo depotenziare la Genesi, rendendola la sequenziata manifestazione dell’agire fisionomico di Dio? Verrebbe meno – potrebbe obiettare qualcuno – la pregnanza miracolistica e poetica e, con essa, la forza imprevedibile che risiede tanto nel viversi in quanto umani, tanto nel farsi in quanto umani.
Questa aspettativa, allora, chiarisce inequivocabilmente un dato evidente: la miracolistica dell’atto poetico è tale in virtù di un’aspettativa miracolistica del vivere e, pari merito, del vivere interiore. Come precisato nel precedente articolo, infatti, scindere l’atto poetico dall’atto vitale è un’operazione non solo erronea, ma anche profondamente ingenua. La poesia è, infatti, il veicolare del vissuto proprio agli altri vissuti, entro una piega originale e soggettiva. La poesia, tuttavia, è anche e soprattutto vissuto. Prima di giungere all’analisi stessa della parola poetica, è, dunque, necessario calmierare questa sinergia inevitabile tra la vita e la poesia, perché se manca la strutturazione primigenia dell’atto poetico, la sua epifania è inevitabilmente edulcorata della sua sensatezza e della sua validità.  Può sembrare, questo, un passaggio a ritroso, una sorta di instaurazione di una linea difensiva che non vuole giungere al cuore del problema su quali esperienze siano veramente poetiche e quali non lo siano. Eppure tutto questo percorso di marginalizzazione ed edificazione di un campo possiede un unico obiettivo: analizzare la poesia nel suo essere poesia, nella sua essenza (che non è definizione accademica), al fine di essere maturamente posti innanzi al grande salto che sta nell’atto poetico. La poesia ha lo stesso ritmo dell’esistenza, la poesia segue la stessa linea operativa dell’esistere e, in quanto tale, ne incarna la medesima contraddittorietà: essere poeti implica essere anzitutto umani, denigrando ogni avverbio formale (profondamente, vivamente, consistentemente) che vorrebbe sovrabbondare nella descrizione stessa dell’umano. O si è umani o non lo si è. Così come si può essere poeti o si può non esserlo. E l’essenza dell’essere umani o dell’essere poeti non sta nella semplice collocazione produttiva. Cioè: non basta essere nati per essere umani, non basta essere razionali per essere umani, non basta essere vivi per essere umani. Allo stesso modo, non basta aver scritto dei versi per essere poeti, non basta riconoscere la democratizzazione dell’arte poetica per democraticizzare o, peggio ancora, anarchicizzare la poesia. Malgrado il riconoscimento formale dato a ciascun uomo in virtù delle istanze legislative e mediocramente morali, malgrado la formalizzazione editoriale data alla scrittura in versi in quanto sempre e comunque poesia, la forza di una essenzializzazione risiede nella qualificazione che si pone entro il reticolo dell’umano ed entro il reticolo del poetico. In quest’ottica, allora, ad essere precisato non è il mero vissuto biologico che riconosce l’uomo in virtù della sua somaticità e della sua anatomia, non è il mero esercizio di classificazione letteraria che pone la poesia come ciò che è scritto andando a capo, ma è il modo con cui la somaticità e l’anatomia sono ineriti in un processo di costruzione personale, è il modo con cui il banale andare a capo inerisce la costruzione di un mondo che si rende manifesto al poeta e, tramite il poeta, all’altro, ricevente. La poesia, insomma, è, al pari dell’esistenza, una questione riconducibile ad un dispiegamento amplissimo ed infinitesimale di percezioni; percezioni che fanno capo a quella straordinaria attitudine che risiede nella forza poietica, nella forza instauratrice di mondi. Ed è qui, allora, che viene meno l’inerzia miracolistica della poesia e della vita, soprattutto se vita interiore. Attraverso un'analisi scientifica (dunque argomentata e motivata) dell'esistenza e della poesia, si scorge indissolubilmente la loro ordinarietà; un'ordinarietà, nel dettaglio, che non si schiude entro una banalizzazione del modo e del tempo dell’esistenza e della poesia, ma un'ordinarietà, piuttosto, che si fonda nella critica conoscenza e ricostruzione che scaturisce entro l’esistenza ed entro la poesia. Per capirci: lo sforzo e la volontà (la tensione) di sentirsi motivati entro un'analitica descrittiva tanto dell’esistenza quanto della poesia implica la contingentazione dell'essere dell’esistenza e della poesia. Per cui, si può, con estrema cura e con estrema attenzione, giungere ad una riflessione seria sull'esistenza e sulla poesia, al punto da denigrare e delegittimare ogni tentativo di inserimento delle stesse entro una scia bugiarda, aleatoria, ideale, infondata, creativa, errata.
La pretesa, dunque, di una ricollocazione dell'esistenza e della poesia entro quel miracolo di una soggettività incomunicata e di una determinazione assoluta del vivere, di un'ispirazione che, improvvisamente, rapisce e consegna, a mò delfico, il fare della poesia, non solo perde di consistenza ed esattezza, ma ha anche un effetto negativissimo nell’esistere e nel fare poesia. In tal senso, la ricerca onesta nei confronti dell’esistenza e della poesia ha per suo oggetto la tensione inevitabile verso una descrizione farraginosa e con ovvie difficoltà derivanti dal posizionamento di chi sta nel mezzo, di chi deve rannodare le fila non semplicemente nell’impossibilità di uscire esternamente tanto all’esistenza quanto alla poesia, ma dall’impraticabilità di un’uscita all’esterno dell’esistenza e della poesia. La percezione che è l’esistenza, la percezione che è la poesia, non è semplicemente l’approccio verso una totalità estraniante: cioè, malgrado lo si voglia, non posso inesistere per poter percepire la totalità dell’esistere o non posso non poetare per percepire la totalità del poetare. È solo esistendo e, soprattutto, è solo poetando che si può autenticamente percepire tanto l’esistenza quanto la poesia. Ciò che manca all’odierna poesia è, allora, questa volontà di sussistere nel mezzo, questo sforzo autentico nell’inerire la poesia semplicemente. Ho chiarito il semplicemente con un obiettivo ben fermo in mente: la non fuoriuscita dalla poesia è motivata spesso con la sua eccezionalità. Proprio perché miracolo della sensibilità, la poesia non può essere ricostruita nelle sue genealogie o, se ricostruita, ci si trova dinanzi spesso a volti poetanti che hanno le sembianze di balbettanti interrogati o a nostalgici sacerdoti della parola che recriminano un’indagine a-scientifica attorno alle ragioni ed ai motivi della poesia, ritenendo che l’arte del verso rappresenti un incomunicabile. Ora mi si spieghi: se la poesia giunge dall’io e non ha alcuna base vincolante divina o miracolistico-soprannaturale, perché non dovrebbe anche la stessa poesia calarsi in quell’enorme studio che sussiste entro il corpo ed entro un’inerenza dell’uomo? Se la poesia è collocazione dialogante della posizionalità del poeta, per quale motivo essa deve sfuggire a se stessa ed arroccarsi in quella discesa liturgica che spesso si fa assumere metaforicamente alla poesia? Tali domande sono motivate dall’enorme e straordinaria difficoltà che l’uomo ha di auto-interrogarsi, che l’uomo ha di descrivere semplicemente pur di irradiare il suo stato di sovrastrutture dalla forte densità creativa. E non è questo, anch’esso, un atto poetico?
No, non lo è e non lo sarà mai. L’instaurazione di un viatico creativo a-critico è assolutamente anti-conoscitivo. Questo è afferibile epistemicamente a quella densa strada di anti-scientificità, propria di un muoversi secondo dettati o postulati di circostanza. E questo risiede tanto nel non uomo, tanto nel non conoscitore, tanto nel non poeta. Il non uomo è colui che non si vive, che non si costruisce il suo mondo, che non direziona con felice angoscia il suo destino, che non sa congiungersi alla sua matericità, che non è nelle condizioni di valutare se stesso senza filtri, che non sa adottare un giusto percorso di faberismo. Il non conoscitore è colui che pensa, che non unisce al pensiero un atteggiamento singolarmente critico, che non descrive, che non genealogizza, che non si pone consapevolmente al centro del suo esistere e diviene macro e micro-millesimalmente. Non poeta è il non uomo, è il non conoscitore, è l’infatuato non inter-soggetto che non si pone al centro del suo atto poetico e che non inizia un percorso in selciato rispetto alla fisionomia poetica. Non poeta è ego-gravitante, solipsista, ancorato a quella Grazia immotivata che lo spinge al compimento di una miracolosa opera d’arte, è il bugiardo seriale che si convince di assuefarsi all’oltre evidenza. Non poeta è l’incosciente che non edifica mondi, ma li importa, rimodulandoli. Non poeta è il percettivo senza carne, è il rifiuto complessivo di un’intellighenzia e di un corpo che plasmino e che sappiano procreare. Non poeta è il fraintendente per eccellenza: è chi interpreta la percezione carnale come una banalissima modulazione diaristico-quotidiana, come una climatizzazione erotica o pseudo-erotica importata o privata di un campo, che sia anche il suo stesso. Non poeta è l’inter privato del suo soggetto, perché incapace di dischiudersi e di portare un senso che sia un senso primordialmente costituito.
Poeta è il semplice inerente. Poeta è il segnante, l’apertura unica ed originale di un mondo. Poeta è chi costruisce con enorme fatica un suo mondo, lo disvela facendo registrare più che l’inaudito, il sedimentare di un rapporto ombra-luce perpetuo. Perché è in fondo questo il segreto di ogni inter-soggetto: la sua edificazione di un mondo definitivamente dischiuso, entro il quale sia visibile il percepito, ma sempre ad un palmo di distanza da quel sé che è parte e ombra irremovibile. E la poesia non è atto a-esistente, la poesia non fa maturare una genealogia speciale: la poesia è, piuttosto, fenomeno di un corpo; la poesia è squadernamento di un inter-soggetto. Solo in questa medietas, solo in questo roboare anti-moda, solo in questa autentica densità che faccia naturalmente privilegiare e riconoscere, la poesia diviene corale di una coesistenzialità non aberrante.
 
Solo così, la poesia è di coscienza!



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