(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 36 - "Guardiani delle parole": appunti sparsi sull'Etica della Parola - parte quarta
di Sergio Daniele Donati
Al di là delle più o meno ponderate definizioni di etica della
parola, e al di fuori di
contesti che tutto inglobano e in cui tutto appare ora essere in
poesia assunto etico
(in passato la stessa sorte ha avuto l’aggettivo politico
in poesia), un piccolo cenno
definitorio su cosa sia, almeno per chi qui vi scrive, l’etica
della parola bisognerebbe farlo.
Come già ho scritto più volte su queste pagine in tre interventi (vedi i seguenti link: 1, 2, 3), ritengo che possa rivestire un ruolo etico ogni
discorso che pone alla sua base il quesito attorno alla motivazione
ed agli effetti di una scrittura o, ancor meglio, di una parola.
Voglio dire che certe scritture, che
pure possono avere in chi le legge un esito etico, non nascono da una
spinta etica precisa, proprio perché carenti di quella domanda che
dovrebbe precedere la scrittura stessa.
Chi scrive senza porsi il quesito relativo al suo posizionamento
nei confronti della parola (come creatore, come attraversato, come
recettore di voci dell’Altrove) non sta muovendosi, a parer mio, in
senso etico, anche se la sua scrittura può in ogni caso avere sul
lettore effetti di stimolo etico e di questionamento.
La parola che non si interroga sulla parola stessa, in termini di
motivazioni ed effetti, non può essere definita come etica
più di quanto non può essere estetica la
parola che non si interroghi sul ruolo del bello nella scrittura.
L’etica
della parola precede sempre la parola stessa e la sua esistenza va
ricercata nella spinta silenziosa che ne crea il vortice espressivo.
Questo,
lo si ripete, al di là degli esiti che possono essere scarsi o
eccellenti, ma che nulla hanno a che vedere con ciò che ha motivato
un autore – o un mero recettore di voci - alla scrittura.
“ Ogni parola autentica è una
rivelazione, una scoperta della realtà. Il velo però, che cade
dalla cosa, ricade su noi stessi e ci copre con la cosa quando
veramente capiamo la parola. Per questo ci si chiede di rendere conto
di ogni parola “oziosa”, dato che dalle parole siamo giustificati
o condannati” (Mt. 12,36-37 - citato da Raimon Panikkar ne Lo
spirito della Parola (Bollati
Boringhieri 2007)”.
In
questa incisiva frase, pur senza citarla, è contenuta una
definizione di etica
della parola molto
pregna di significati.
La
parola giustifica o condanna le nostre esistenze a seconda del legame
che con essa instauriamo e del grado di comprensione che del fenomeno
parola abbiamo
e riusciamo ad esprimere.
Ed
è etico ciò che è prima
della parola stessa, se su quell’elemento ci interroghiamo.
Questo
sentire, con un argomentare a
contrario,
è ben definito da Francesco Scarabicchi, nella sua poesia Di
Novembre (Il
Prato bianco, Einaudi edit.), il cui testo sotto si riporta.
Parole, ombre dei morti,
e di novembre, ai rami
i diospiri votivi.
La parola come ombra di una realtà
che è portatrice di un sacro celato.
Un brevissimo, quasi non dato, cenno del grande maestro è qui
sufficiente a dichiarare l’intento etico di questa scrittura, il
questionamento sul limite della parola, che qui diviene limite
estremo, morte.
E sulla morte di una parola si
sofferma in una magnifica poesia Yehuda Amichai (nella raccolta
Poesie, Crocetti ed. ). Ecco a voi il testo.
Intorno alla parola “amammo”,
d’erbe marine incrostata sulla rena,
si accalcavano i curiosi.
E fino a sera ascoltammo
testimonianze d’onde, ad una ad una,
che venivano a dirci come avvenne.
d’erbe marine incrostata sulla rena,
si accalcavano i curiosi.
E fino a sera ascoltammo
testimonianze d’onde, ad una ad una,
che venivano a dirci come avvenne.
Perché questa poesia,
apparentemente dimessa, dovrebbe avere un enorme portato etico?
Perché
non dà per scontata l'eternità della parola, ne contempla la
possibile morte, e la possibilità che del suo morire ne possa far
racconto solo l'elemento naturale che è prima di ogni parola (le
onde).
La
parola che cede la sua vita alla narrazione da parte del mare della
sua disparizione, ha un enorme contenuto, una sorta di contemplazione
etica, un’allerta per il lettore che non può ormai ignorare
l’ipotesi che ci sia ben poco di eterno nel nostro dire.
Per concludere non c’è etica
della parola - ma può ben esserci comunque pensiero profondo e
riflessione - se il poeta sulla parola non si interroga.
E questo non è un dato di ogni
poesia, né garanzia di poesia eccelsa.
Semplicemente,
solo l’autore che si pone domande sul suo strumento - la parola -
si pone nei suoi confronti in relazione etica, e non di mero e
incosciente uso.
Gli
esiti, come sempre sono i lettori e i fruitori di un dire poetico che
in ogni caso è per il poeta auto-interrogativo,
a
doverli giudicare.
Che è come dire che, quando mi accingo a scrivere, mi devo porre la domanda "ma che cosa voglio trasmettere con la parola?"
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