Tra jazz e perdono di sè stessi (piccole parole domenicali)

 
Foto di Patrick Fore su Unsplash

Quando si rompe un’alleanza o si vive un lutto o si rompe qualcosa che poggiava sullo sguardo reciproco, sull’accoglimento delle altrui fragilità e tenerezze, sull’infatuazione per le incapacità dell’altro, di dire, fare, lettera e testamento, il silenzio che si crea – quello spazio vuoto ormai privato di comunicazione - non è più Dom, l’austero silenzio d’attesa che precede ogni solenne creazione, anche e soprattutto quella divina.
Ma non è nemmeno Demamah il silenzio sottile, quasi una voce impercettibile, declinata al femminile, che indica la via a coloro che hanno chiuso le orecchie e lo sguardo sulle vertiginose altezze dell’esistenza.
Forse è Lishtok (infinito verbale) che indica una sorta di silenzioso zittimento e sbigottimento, come quello che provò Aronne – proprio lui, l’oratore, l’uomo della parola, fratello e consigliere di Mosè, il balbuziente – quando la volontà divina gli incenerì davanti agli occhi i due figli.
Ci si tacita percependo lo strozzo di un urlo che non trova suono e una domanda, tanto bambina quanto inutile, sorge dentro di noi: “Perché a me? Cosa ho fatto per meritare tutto questo ”.

Eppure quel silenzio, che ha un evidente dato di orrore terrificante, ha una sua chiara sacralità, perché dal seme di quella domanda sorge, se ben coltivato, l’albero della rielaborazione, della consapevolezza, e, se si è fortunati, una nova vita, il cambiamento radicali che tutti noi, prima o poi nella vita abbiamo invocato, si manifesta.
Spesso il Tikkun (la riparazione) parte da una domanda bambina che poi evolve e mette radici in un terreno fertile, che è poi i corpo di chi brama un cambiamento profondo.
Nulla accade per caso nella vita di un uomo, tutto è segno non solo delle sua cause (del passato) ma anche delle sue potenzialità future. 
Allora la domanda bambina  - perché proprio a me? - col tempo ci si accorge che ha un contenuto enorme di autostima possibile, trovando risposta nel detto talmudico "se non io per me, chi per me? (...) se non ora quando?". 

Le declinazioni bibliche del silenzio poi sono infinite ma ben pochi di noi si accorgono che nel corso della nostra vita le abbiamo percorse tutte più volte. 
E se ripetiamo gli stessi percorsi è solo perché l’oblio della nostra stessa esperienza ci impedisce un ritorno vero al centro di ciò che siamo nel profondo.
Poi capita, una domenica mattina, di mettere del jazz (Oscar Peterson e il suo fantastico piano) e percepire una verità nei polpastrelli che battono sulla tastiera del PC, come quelli del grande jazzista sul piano.

Da questi campi io sono già passato e ne sono risorto, da queste esperienze ho sempre ricavato, parrà strano leggerlo, sempre nuova giovinezza; queste aride terre, questi deserti, queste paludi, mi sono famigliari e ne conosco alla perfezione sia le asperità che i tesori nascosti che sono tanti.

Ad esempio so che forza può avere ripetere all’infinito la chiamata di ciò che non torna perché prepara il ritorno di qualcos’altro di più pieno e vero (il dolce ricordo nel caso della morte di un proprio caro, il perdono di sé stessi nel caso di una separazione e una sorta di tenerezza anche verso chi ci ha donato sofferenze).

E questo lo so perché l’ho praticato a fondo...eppure dimentico ancora di praticarlo ancora alla bisogna.
Però oblio e incapacità di evolvere nell’immediato hanno un senso profondo e una relazione stretta.
La gestione di un lutto, di qualsiasi tipo sia, ha proprio questa funzione: ci ridona i tempi necessari per riappropriarci degli strumenti che, già nostri da tempo, abbiamo messo in un cassetto perché non sentivamo più il bisogno di usarli.

Una perdita ci obbliga a riaprirli a spolverare gli strumenti e a ricominciare: è la fatica del contadino, se volete, che compie ad ogni stagione le stesse azioni, conoscendo bene il dato del non governabile della sua esistenza (siccità, alluvioni, gelate improvvise possono sempre capitare e vanificare ogni fatica),

Eppure, più mostriamo di voler tornare verso noi stessi, più il volto che ci manca svanisce nei contorni, ma ne resta nitida la voce, con la quale ci pare di poter parlare ancora. 
Il silenzio di ciò che non torna è aperto alla comunicazione sempre, parrà folle da dire, ed è sempre possibile entrare in contatto a distanza con le assenze. Sempre. 
Ma questo si può fare solo dopo che si è stati capaci di Teshuvà (ritorno a sé), altrimenti quel dialogo diviene luogo del delirio di onnipotenza che nega ogni cambiamento.

"Ha da passà a nuttata", dicono a Napoli ed è vero. Il Tempo è essenziale in questi passaggi e anticiparne o posticiparne uno solo può essere, e il più delle volte è, nefasto. E badate bene quella nuttata non significa solo lasciare che il Tempo lavori. IL Tempo non lavora. Siamo noi che ci diamo il tempo di lavorare su noi stessi e mettiamo frutto un Tempo che, vale la pena ricordarlo, è sempre e solo dono, visto che nessuno di noi sa quanto ne ha ancora davanti.

È la nuttata di una terribile conta dei nostri errori e delle nostra mancanze.
È una conta terribile, si diceva, fatta di periodi ipotetici, di “avrei potuto, avrei dovuto, avrei voluto” che necessita di tutta la nostra potente pazienza per potersi trasformare in un: non potevo far meglio di ciò che ho fatto, perché i miei spigoli, che pure tanto odio e vorrei che sparissero, erano ciò che in quel momento di permetteva un equilibrio vitale.

Non bisogna temere la disperazione, né la perdita della speranza, che ha la tendenza naturale a tornare, l’unica cosa che non ci si può permettere di concedersi è la clemenza verso sé stessi.
Come potremmo appellarci alla clemenza divina se siamo noi stessi incapaci di darci una pacca sulla spalla e dirci che l’errore non è una colpa, ma un momentaneo stato di incoscienza?

Bisogna continuare a chiamare, a chiamare, a chiamare, appellandosi alla potenza del piccolo.
Quando vivo un lutto non guardo gli alberi troppo grandi maestosi, troppo arrivati e risolti, per essere d’esempio per me, che devo ricostruirmi.
Osservo la tenacia di un fiore che nasce nell’asfalto, l’apparente nonchalance con cui una formica trasporta una briciola, che pesa il doppio di lei, verso la sua tana, la caduta di bicicletta di un bambino, il suo pianto e il moto di empatia tanto umana e sacra che suscita in tutti.
Piccole cose che portano con loro l'immensità del Sacro. 
Due chiacchere al bar con degli sconosciuti, quando non si sa più chi si è, valgono più di mille parole sapienziali. Perchè?
Perchè tout simplement  ci tirano fuori dalla ustionante e falsa sensazione che il nostro dolore sia il centro del mondo.
La vita ha una forza enorme ed è ottima attrice e sa mettere benissimo in scena la sua capacità di andare avanti nonostante noi.
La Vita è una donna sensuale, ti guarda e ti dice "Beh se non mi segui tu, lo farà qualcun'altro. A te la scelta". 

Questi sono gli esempi per chi deve rinascere.
Solo così, pian piano, la vita si ri-manifesta, nel piccolo enorme gesto ricevuto, la chiamata di un amico inaspettato che ti chiede come stai, nella stanza azzurra che hai tralasciato e passo dopo passo rincominci a ricostruire e pulire.

Per la pulizia della stanza ho un potente aspirapolvere, un personale mantra tratto da un salmo che dice:
Di giorno (egli) spande la sua benevolenza, di notte il suo canto è con me; una preghiera del Signore per la mia vita.

E, se sento (mi capita) di non credere, mi basta cambiare particella e la notte, quando i fantasmi si manifestano più forti, recito: di notte il MIO canto è con me.

La Trascendenza non ha bisogno del mio sostegno, mi dico, ho bisogno del mio sostegno io stesso. Che sia Lui che canti (e dovreste sentire che voce meravigliosa ha, se riuscite a chiudere gli occhi ed ascoltare il Sacro) o io (con voce sgraziata) poco importa. 

Se c’è un lutto da elaborare qualcuno deve pur cantare e dimostrare che non è mancato né l’Altro l’Altrove dalle nostre vite.

Mi attende un canto sgraziato
e la maschera del sorriso:
il cambiamento va nelle due direzioni
dall’interno all’esterno
e dall’esterno all’interno;
una preghiera all’Altrove
perché ascolti la preghiera
di chi chiama il cambiamento.

(Sergio Daniele Donati)
stampa la pagina

Commenti

Posta un commento