Genere In-verso - 15 - La libertà di essere Ariosto
Pochi autori usano l'allegoria come Ariosto. Direi proprio che questa figura diventi la chiave interpretativa dello scrivere del reggiano nelle sette satire.
E dove spicca l'allegoria? Nei cosidetti Apologhi. Sono favole moraleggianti, spesso di stampo oraziano (come nel celeberrimo topo di campagna e topo di città), con riprese dagli amatissimi Fedro ed Esopo.
Nella cosidetta favola dell'asino e del topolino, l'autore dell'Orlando esprime i motivi della sua scelta di non andare con il cardinale Ippolito d'este in Ungheria, ribadendo il proprio amore per la libertà a tutti i costi e per una vita tranquilla. Meglio una rapa in casa propria che nella corte cinghiali e starne. L'indipendenza vale più di qualsiasi cosa.
Uno asino fu già, ch’ogni osso e nervo
mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto
del muro, ove di grano era uno acervo;
e tanto ne mangiò, che l’epa 8 sotto
si fece più d’una gran botte grossa
fin che fu sazio, e non però di botto.
Temendo poi che gli sien péste l’ossa,
si sforza di tornar dove entrato era,
ma par che ’l buco più capir 9 nol possa.
Mentre s’affanna, e uscire indarno spera,
gli disse un topolino: «Se vuoi quinci
uscir, tràtti; compar, quella panciera:
a vomitar bisogna che cominci
ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro,
altrimenti quel buco mai non vinci».
Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro
renderli, e tòr la libertà mia prima.
E dove spicca l'allegoria? Nei cosidetti Apologhi. Sono favole moraleggianti, spesso di stampo oraziano (come nel celeberrimo topo di campagna e topo di città), con riprese dagli amatissimi Fedro ed Esopo.
Nella cosidetta favola dell'asino e del topolino, l'autore dell'Orlando esprime i motivi della sua scelta di non andare con il cardinale Ippolito d'este in Ungheria, ribadendo il proprio amore per la libertà a tutti i costi e per una vita tranquilla. Meglio una rapa in casa propria che nella corte cinghiali e starne. L'indipendenza vale più di qualsiasi cosa.
Uno asino fu già, ch’ogni osso e nervo
mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto
del muro, ove di grano era uno acervo;
e tanto ne mangiò, che l’epa 8 sotto
si fece più d’una gran botte grossa
fin che fu sazio, e non però di botto.
Temendo poi che gli sien péste l’ossa,
si sforza di tornar dove entrato era,
ma par che ’l buco più capir 9 nol possa.
Mentre s’affanna, e uscire indarno spera,
gli disse un topolino: «Se vuoi quinci
uscir, tràtti; compar, quella panciera:
a vomitar bisogna che cominci
ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro,
altrimenti quel buco mai non vinci».
Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro
renderli, e tòr la libertà mia prima.
Nella terza satira mi piace
segnalare l'apologo della gazza.
Un pastore, che necessitava di acqua
per sé, la famiglia e gli animali allevati, visto il periodo di
siccità, trova una sorgente, ma ha solo un vasetto da cui
attingervi. Quindi stabilisce l’ordine con cui avrebbero dovuto
bere familiari e bestie, in base ai loro meriti. Questi, per non
essere gli ultimi, vanno dal pastore, elencando pregi e risultati
ottenuti. Una gazza, che rappresenta non solo Ariosto, ma tutta la
condizione di scarsa considerazione e di subordinazione degli
intellettuali e degli uomini di cultura del tempo, molto amata dal
pastore quando le cose andavano bene, si accorge di non essere né
sua consanguinea, né fonte di guadagno, e, per non morire di sete,
decide di cercarsi un nuovo ruscello in cui abbeverarsi.
Una stagion fu già, che sì il
terreno
arse, che ’l Sol di nuovo a
Faetonte
de’ suoi corsier parea aver dato
il freno;
secco ogni pozzo, secca era ogni
fonte;
li rivi e i stagni e i fiumi più
famosi
tutti passar si potean senza ponte.
In quel tempo, d’armenti e de
lanosi
greggi io non so s’i’ dico ricco
o grave,
era un pastor fra gli altri
bisognosi,
che poi che l’acqua per tutte le
cave
cercò indarno, si volse a quel
Signore
che mai non suol fraudar chi in lui
fede have;
et ebbe lume e inspirazion di core,
ch’indi lontano troveria, nel
fondo
di certa valle, il desiato umore.
Con moglie e figli e con ciò
ch’avea al mondo
là si condusse, e con gli ordegni
suoi
l’acqua trovò, né molto andò
profondo.
E non avendo con che attinger poi,
se non un vase picciolo et angusto,
disse: "Che mio sia il primo
non ve annoi;
di mógliema il secondo; e ’l
terzo è giusto
che sia de’ figli, e il quarto, e
fin che cessi
l’ardente sete onde è ciascuno
adusto:
li altri vo’ ad un ad un che sien
concessi,
secondo le fatiche, alli famigli
che meco in opra a far il pozzo
messi.
Poi su ciascuna bestia si consigli,
che di quelle che a perderle è più
danno
inanzi all’altre la cura si
pigli".
Con questa legge un dopo l’altro
vanno
a bere; e per non essere i sezzai,
tutti più grandi i lor meriti
fanno.
Questo una gazza, che già amata
assai
fu dal padrone et in delizie avuta,
vedendo et ascoltando, gridò:
"Guai!
Io non gli son parente, né venuta
a fare il pozzo, né di più
guadagno
gli son per esser mai ch’io gli
sia suta;
veggio che dietro alli altri mi
rimagno:
morò di sete, quando non procacci
di trovar per mio scampo altro
rigagno".
Sempre nella terza satira, c'è un
recupero della Aurea mediocritas oraziana. Un apologo relativo alla
gente primitiva che, vedendo la luna al sommo di un monte, si illude
di possederla arrampicandosi sul rilievo (vv. 208-231). È necessario
vivere invece una vita distante dall’ambizione e dalla brama di
potere e ricchezze. Una vita semolice, qualunque, con la donna amata
e gli amici piu fedeli. Cercare la luna implica il disastro , il
cadere. Meglio accontentarsi. La conclusione della allegoria è
emblematica del pensiero di Ariosto nei confronti delle brame e delle
illusioni di potere:
A piè d’un alto monte, la cui cima
Parea toccasse il cielo, un popol, quale
Non so mostrar, vivea ne la valle ima;
Che più volte osservando la ineguale
Luna, or con corna, or senza, or piena, or scema,
Girare il cielo al corso naturale;
E credendo poter da la suprema
Parte del mondo giungervi, e vederla
Come si accresca, e come in sè si prema;
Chi con canestro, e chi con sacco per la
Montagna, cominciar correr in su,
Ingordi tutti a gara di tenerla.
Vedendo poi non esser giunti più
Vicini a lei, cadeano a terra lassi,
Bramando in van d’esser rimasi giù:
Quei, ch’alti li vedean dai poggi bassi,
Credendo che toccassero la Luna,
Dietro, venian con frettolosi passi.
Questo monte è la ruota di Fortuna,
Ne la cui cima il volgo ignaro pensa,
Ch’ogni quiete sia, nè ve n’è alcuna.
Meno nota, ma ugualmente
sorprendente e significativa è la allegoria del pero e della zucca,
posta nella settima e ultima satira.
Ci fu una zucca che in pochi giorni
crebbe tanto in altezza che coprì
i rami più alti del suo vicino, un pero.
Una mattina, svegliatosi da un lungo sonno,
il pero aprì gli occhi e vide
i nuovi frutti che gli pendevano sul capo.
Le disse: - Chi sei? Come sei salita
fin quassù? Dov'eri prima, quando io,
stanco, mi sono addormentato?
Essa gli disse il nome e gli mostrò il punto
giù in basso dove era stata piantata: - Fin qui -
disse - in tre mesi son giunta, accelerando il passo.
Ed io a fatica arrivai a questa altezza
dopo trent'anni - soggiunse il pero - lottando
con tutti i venti, il caldo e il gelo.
Ma tu, che in un momento arrivi in cielo,
sii certa che tanto in fretta, così com'è
cresciuto, verrà giù il tuo stelo.
Ci fu una zucca che in pochi giorni
crebbe tanto in altezza che coprì
i rami più alti del suo vicino, un pero.
Una mattina, svegliatosi da un lungo sonno,
il pero aprì gli occhi e vide
i nuovi frutti che gli pendevano sul capo.
Le disse: - Chi sei? Come sei salita
fin quassù? Dov'eri prima, quando io,
stanco, mi sono addormentato?
Essa gli disse il nome e gli mostrò il punto
giù in basso dove era stata piantata: - Fin qui -
disse - in tre mesi son giunta, accelerando il passo.
Ed io a fatica arrivai a questa altezza
dopo trent'anni - soggiunse il pero - lottando
con tutti i venti, il caldo e il gelo.
Ma tu, che in un momento arrivi in cielo,
sii certa che tanto in fretta, così com'è
cresciuto, verrà giù il tuo stelo.
La contrapposizione è netta. Da un
lato la zucca, nota per la sua crescita tanto rapida quanto
effimera, zucca da sempre emblema negativo (si pensi
all'Apokokyntosis di Seneca), che qui si identifica con gli adulatori
e il servilismo che permettevano una rapida carriera a corte;
dall'altro Ariosto, che vede specchiata nella sua carriera l’immagine
del pero, per indicare uno sviluppo lento e ponderato.
Ecco, esempi di allegorie. Una
strada poetica che ancora oggi potrebbe offrire spunti di novità. E
voi che ne pensate?
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