Poesie di Giovanna Rosadini tratte da "Il numero completo dei giorni" (Aragno ed., 2014) - con nota di lettura di Sergio Daniele Donati
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LA POETA RITRATTA IN FOTO DA DINO IGNANI© | | | | | |
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Il rapporto del lettore/ermeneuta con un testo sacro come la Torah non può non tener conto di un dato importante che, se volessimo racchiuderlo in una parola sola, non potrebbe che definirsi come intimità.
Si dice che, mentre ne scorriamo le lettere, il LIBRO ci legge, che legga nelle profondità delle nostra viscere e del nostro cuore, perchè è alla ricerca del punto di sincerità che ogni interprete deve saper custodire nell'approcciarsi ad un'opera millenaria.
D'altronde ogni nostro sforzo nell'interpretazione ha un riscontro nel nostro inconscio e nel nostro corpo ed è per questo che sono prescritte alcune posture precise per leggere certi testi, secondo alcune scuole.
Quando poi lo studio e la lettura del testo sacro sfocia in scrittura poetica l'elemento dell'intimità è, a mio avviso, duplicato, e manifesta appieno la maturità dell'interprete nel saper trasportare un messaggio che porta odori di antico nella sua vita e nel suo posizionamento nei confronti dell'esistente e dell'esistenza in sé.
Ed è forse anche per questo che il testo della Torah si passa di generazione in generazione suscitando, con una vitalità che sorprende, sempre nuove interpretazioni.
Un testo fisso, a cui non si cambia nemmeno una Yod, continua produrre frutti diversi e letture che tengono conto delle mani che hanno girato quei rotoli e delle retine, degli sguardi di chi l'ha letto.
Tutto questo ce lo dimostra ampiamente la poeta Giovanna Rosadini nella sua opera "Il numero completo dei giorni" (Aragno ed., 2014), di cui ci onoriamo oggi di pubblicare un breve estratto.
Quelle delle Rosadini sono vere e proprie interpretazioni del testo in forma poetica, visioni che le lettere e le parole di quella lettura e studio le hanno lasciato come insegnamento da trasmettere.
Tutt'altro che didascaliche quelle visioni e ascolti profondi che nel rapporto col Libro la poeta ha saputo far vivere nel verso, sono capaci a loro volta di smuovere il lettore verso la consapevolezza di un Altrove a noi molto prossimo.
Forse di un Altrove che per molti è Altrove solo perchè ne si ignora troppo spesso, e volutamente, le voci: altrimenti sarebbe - e così dovrebbe essere - la linfa della nostra quotidianità.
Allora la poesia si fa dono splendente e sapienziale, moderno ed antico allo stesso tempo, e svolge con costanza e precisione una delle sue funzioni principali: saper richiamare l'umano distratto alle origini, alla sua essenza, alla sua sorgente spirituale più profonda, non richiamando o consigliando ascesi improbabili, ma semplicemente facendo leva sul ricordo di ciò che nel profondo siamo già ora, se ce ne ricordiamo.
Umanizzare il testo della Torah è precetto preciso della Torah stessa, che, come dice il Testo, non è stata donata per gli abissi marini ove non sarebbe stata raggiungibile o per le cime innevate ma per le nostre mani e occhi, perchè potesse creare un Nuovo Cuore per noi ove quelle parole potessero trovare dimora.
E la poeta questo lo sa benissimo, e ce lo dimostra in ogni suo singolo accapo: la Torah non è astrazione, e il suo studio è un viaggio a spirale per l'Uomo alla ricerca del proprio centro, di ciò che in noi non muta nemmeno sotto le sferzate del tempo.
Cosa di più intimo che descrivere questi passaggi in poesia? Cosa esiste di più delicato che questo viaggio che la poeta ci propone all'interno di noi stessi, grazie ad un esterno a noi prossimo che ci guida, passo dopo passo?
Scritture simili, sempre più rare da trovare, sono dono immenso alla poesia e dalla poesia, allo stesso tempo.
E noi siamo davvero lieti di potervi qui invogliare alla lettura dell'opera completa che non aspetta altro, come il testo sacro, di entrare in intimità col vostro cuore e sguardo.
Per la Redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati
ESTRATTO DALL'OPERA
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Bereshith
Cage within a Cage
Quest'inizio c'è già stato, molto tempo
fa: vuoto sospeso dentro un altro vuoto,
riecheggiata eleganza del gioco – muovendo
dall'informe scuro e roco. Un mondo
è germogliato sui rifugi, nominato foglia
a foglia, stella a stella, sostanza sillabata,
fatta piena – parole accorse a dare forma,
materia germinata, vita moltiplicata sopra
la traccia di un'altra vita, membrana sbiadita
fino al nulla e rinverdita. Quest'inizio parla
una lingua riesumata, fissata nell'eterno
istante in cui è già stata pronunciata –
eternamente prossima ad essere dimenticata.
Ebbe inizio nell'ombra, in un angolo lontano
dai luoghi normalmente frequentati.
Quando la spora attesa, il virus remigando giunse
alla terra promessa, in qualche
approdo del cuore per mettervi le tende.
Non lo sappiamo, se la partenza non sia
in realtà un ritorno, e la verticale dei legami
recisi (sapore di zolla ancestrale, profili
all'orizzonte di un gesto, incisi: e il padre,
i padri) non ci aspetti in altre riannodate
sembianze all'arrivo del viaggio. Non sappiamo
quanto lungo il tempo dell'abbandono, quale
precisamente sarà l'arrivo, se mai ad uno
giungeremo. Conosciamo solo la necessità.
Saremo noi, se ci sapremo riconoscere,
la terra promessa.
Se non fosse che questo: giungere a un luogo
esattamente pronunciarne il nome, essere a casa.
Eri qui e non lo sapevo, nel fiato
di una schiera arrampicata oltre il buio,
sopra la notte sassosa e brulla
e perduta nel vento. Sono arrivate
in un silenzio lieve di passi, si sono
scritte da sole, sul foglio bianco
del giorno risvegliato, mi hanno
parlato: lunari e piumate, ma
gravide del peso di gesti portati
in offerta, anticipati nel segno
lieve che prelude alla risposta,
l'innesco fragile e sicuro
che toglie la minaccia alla tempesta.
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Ki Thissà
e Tu avevi permesso che il loro cuore si ritirasse indietro
I.
A volte, la sera – uno spicchio
di luce taglia il corridoio, spente
le voci e sedati i conflitti – mi dico
questi momenti ritorneranno, caduto
il rancore per l'assedio, sciolta
la fatica nei conseguimenti, quali
mai saranno: questi momenti mi
infesteranno come erbe trascurate,
troveranno il loro varco fra le pietre
dei volti induriti, i minuti consumati,
le impalcature dei restauri, affioreranno
come resti di civiltà sepolte, reperti
per il museo che verrà.
II.
Bastiamo appena a noi stessi, e
anche noi abbiamo bisogno, ancora,
di una madre. Beviamo insieme
all'acqua cenere e polvere d'oro.
Stai un po' con me.
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Nota biobibliografica di Giovanna Rosadini
Nata a Genova nel 1963, si è laureata in Lingue e Letterature Orientali all’Università di Ca’ Foscari, a Venezia. Ha lavorato per la casa editrice Einaudi, come redattrice ed editor di poesia, fino al 2004, anno in cui è uscito, per lo stesso editore, Clinica dell’abbandono di Alda Merini, da lei curato.
Ha pubblicato la raccolta Il sistema limbico per le Edizioni di Atelier nel 2008, e altri testi poetici in riviste e antologie collettive. Nel 2010 è uscito Unità di risveglio, per la Collezione di Poesia Einaudi, Premio Arenzano.
Per lo stesso editore ha curato l’antologia Nuovi poeti italiani 6, del 2012. La sua terza raccolta poetica, Il numero completo dei giorni, è stata pubblicata da Nino Aragno editore nel 2014. A maggio 2018 la pubblicazione di una nuova raccolta, Fioriture capovolte, ancora per Einaudi editore, Premio Camaiore, cui ha fatto seguito, nel luglio 2019, l’autoantologia con inediti Frammenti di felicità terrena, edita nella collana “Gialla oro” di LietoColle /Pordenonelegge, Premio Merini. A giugno 2021, per i tipi di Interno Poesia, la silloge in lasse prosastiche Un altro tempo. Ha vinto la 40ma edizione del Premio Pavese sezione poesia “per la qualità dell’opera” nel 2023. Vive e lavora a Milano.
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