(Redazione) - Passaggio in Grecia (Το πέρασμα στην Ελλάδα) - 04 - Ifigenia è tornata. Su "Il ritorno di Ifigenia" di Ghiannis Ritsos

 
Di Maria Consiglia Alvino 
 
I morti sempre e dovunque sono più numerosi dei vivi. 
Non parlano – perciò il silenzio si infittisce. Tuttavia ascoltano.
 
G. Ritsos, Il ritorno di Ifigenia, Crocetti, 2013
Traduzione italiana di N. Crocetti

Scritto a Samo e ad Atene tra novembre 1971 e l’agosto 1972, Il ritorno di Ifigenia costituisce uno dei monologhi più inquietanti della raccolta Quarta dimensione, edita e tradotta in italiano da Nicola Crocetti (Milano, 2013). Tramite la voce del personaggio l’autore si interroga e fa sì che anche il lettore si ponga domande esistenziali dalla profondità disturbante.
Si dà per scontata la vicenda mitica, riconnettendosi Ritsos direttamente ad Euripide, che aveva messo in scena nell’Ifigenia in Aulide e nell’Ifigenia in Tauride la tragedia della primogenita di Agamennone, atrocemente sacrificata in Aulide per consentire la partenza delle navi achee per Troia; Artemide, impietosita, sostituisce la fanciulla con una cerbiatta. Ifigenia diventa quindi una sacerdotessa della dea in una terra remota, la Tauride, dove amministra il culto di uno xoanon, un’effigie in legno della divinità. Nell’Ifigenia in Tauride Oreste, dopo il matricidio, si reca insieme a Pilade in Tauride per ordine di Apollo per rubare la statua della dea e riportala ad Atene; lì riconosce Ifigenia e i due fratelli si accingono a ritornare in Grecia. Qui il mito si interrompe e non sappiamo cosa accade ai due una volta rimpatriati.
La voce di Ritsos riparte, quindi, direttamente da quel punto in cui lasciamo Oreste e Ifigenia sulla spiaggia in partenza, a fare i conti con il proprio nostos. Li ritroviamo ad Argo nella casa paterna, ormai allo sfascio, sprofondati nelle proprie poltrone, uno di fronte all’altro, alle prese con le proprie storie. Ad Argo la terra è ancora rossa del sangue versato. È mezzanotte passata ed è primavera. Siamo in un salotto ampio e stinto. Tra i due pesa una profonda distanza, come se stanchezza e disillusione avessero sostituito ogni passione che li aveva precedentemente animati. Ifigenia però deve parlare. Deve ri-significare la propria esistenza. È un’esule, una morta, ritornata alla vita. Ma quasi tutti sono morti, e pesano più dei vivi. Degli dei nessuna traccia. Il simulacro di Artemide che Ifigenia ha portato con sé dalla Tauride giace bruciacchiato a terra. C’è un pianoforte, ormai muto, a ricordare il silenzio e ciò cui ha assistito, “un cassone nero pieno di ossa, bottoni, scarpe imbarcate e innumerevoli orecchini scompaginati”. I morti della famiglia riposano nelle grandi tombe a volta. Anche Pilade, il fedele complice dei due fratelli, se n’è andato, forse presagendo un cambio di tensione nei loro rapporti.
Il monologo si snoda seguendo il filo delle domande di Ifigenia. Tutte inutili, tutte senza risposta. Dal non detto di una memoria obnubilata e allucinata, emergono ancora le tensioni familiari. Immagini di Clintemnestra, bellissima, piena di gioielli, che metteva a Ifigenia bambina ali da angelo o cerva o farfalla, perché volasse, e a Oreste pugnali, perché imparasse a correre, e insegnava ai pappagalli a dire “Luce!”; di Agamennone che credeva che le case fossero di vetro e invece era tutto solo aria.
Era questo il viaggio? Il nostos ha riservato una delusione, non per la meta in sé, ma perché “forse siamo noi che ci manchiamo”. L’identità è completamente disgregata. Non esiste una patria, né un punto di partenza. Resta solo il viaggio per il viaggio e la consapevolezza di quanto “tutto sia indifeso”. Disgregata è anche la memoria: i morti se ne sono andati nella gloria con i loro elmi. È il peso illogico delle guerre, delle devastazioni familiari e globali, delle guerre mondiali, dei colpi di stato e delle rivoluzioni di ogni tempo, che mai cessano, anzi, alimentano giorno dopo un orrore dopo l’altro, senza che ci si ricordi più le origini, le ragioni, le colpe: “Certe cose assumono un peso inspiegabile giorno dopo giorno, restano immobili, e non riesci a sollevarle, a nasconderle nel baule”. I ricordi si annebbiano, al punto che diventano dei “non sono”. L’assenza di memoria diviene assenza di identità.
Non c’è stato nulla da vincere, nessuna verità o giustizia da restaurare, ora Ifigenia lo comprende, nel portare a termine un destino deciso da altri, nell’indossare, credendo che aderissero al proprio sé, maschere disegnate (la maschera di cerva che le aveva fatto la madre): “Quella semplice maschera mi toglieva la responsabilità per così dire di ogni mio gesto. Non ero più me stessa; potevo essere un’altra; ma sotto quell’altra o dentro quell’altra, restavo me stessa, tutta intera, nient’altro che me stessa”.
Ma com’è accaduto tutto questo? Come si sono allontanate le cose (o forse siamo noi?)” si chiede Ifigenia. Perché gli oggetti, forse, si frappongono tra l’occhio e la visione, proiettandoci nell’immaginazione; in un’altra dimensione, appunto, che sussiste insieme al presente e che è fatta dei passati e delle storie che ci hanno determinato e contemporaneamente di tutte le altre possibili che avremmo voluto. E questo allontanamento dal presente, lo sprofondare onirico nell’altrove è forse però l’unico piacere, l’unica libertà che in fondo ci sia riservata: “assieme alla sensazione dell’allontanamento e della dissoluzione ti rimane un po’ di libertà dell’infinito e dell’inesistente”.
È nella dissoluzione che Ifigenia infine riconosce un principio di pace, una “riconoscenza silenziosa, finalmente ammessa”. “È proprio in quell’annientamento, quando cade la notte, noi percepiamo, quel segreto piacere di un rispetto reciproco tra noi (noi? Chi?), la coscienza serena di un’ignoranza rimasta assoluta; – una riconoscenza muta, un’impotenza generale finalmente introiettata”.
Ma allora, come è possibile la rabbia, la collera verso noi stessi e l’altro? “Perché omicidi, spedizioni militari, […], città rase al suolo”? Forse l’origine del male sta proprio nell’esercizio della parola, nella ribellione al silenzio connaturata all’essere umano. è la parola che ci allontana dalla vita, vera e muta, fertile, delle piante, solo perché un cantore continui a cantare “come per sottolineare con la sua postura cieca l’assenza di ogni significato”. Tutto non è che aria e la gente non si accorge di andare a spasso tra i morti.
Perché dunque rimanere fermi ad aspettare, provando a far risorgere legami resi inutili, svuotati di ogni senso? Ai vivi resta solo il breve spazio di una conversazione, nella coscienza del proprio limite, della propria, fragile, nudità: “Forse, noi due che abbiamo appreso che non c’è consolazione in questo mondo, forse, proprio per questo, noi due arriveremo (sia pure separati) di nuovo a consolare e ad essere consolati”.
In questa reinterpretazione in chiave esistenziale della figura di Ifigenia, Ritsos ci mostra come gli archetipi del mito continuino a parlare. Per Ritsos “Il mito non è ricordo di fiaba, né ricamo d’immaginazioni poetiche, ma l’autentico, tetragono linguaggio dei fatti, la struttura sepolta sotto i dispersi cascami dell’esistenza, e l’artista ha il dovere morale, profondamente politico, di farcela splendere innanzi” (E. Savino in G. Ritsos, Quarta Dimesione, Crocetti, 2013).
Il tempo si avvera nella reincarnazione degli spettri. La quarta dimensione, il mito, lo rivela al poeta. Ifigenia è un personaggio del presente che guarda al passato proprio e storico a posteriori, chiedendosi il perché delle scelte degli altri – gli eterni nuclei della scissione interiori incarnati da padre e madre – e delle proprie, in rapporto a loro e agli dei, al destino. Va oltre la soglia del conflitto psichico e cerca un approdo possibile, una pace che, in ultima analisi, si rinviene in un senso di dissoluzione e incoscienza, che è collettivo e che comprende tragicamente tutti. Al personaggio, spogliato e nudo di ogni maschera, non resta che una sola consolazione, l’andare.
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