(Redazione) - Speciale "I Romantici" - “Giacomo Leopardi e la lingua ebraica antica” di Sergio Daniele Donati

 
di Sergio Daniele Donati

FERDINAND VICTOR EUGENE DELACROIX - TIGRE E SERPENTE
 
I Romantici hanno aperto sulla nostra contemporaneità, hanno coniato mutamento radicale del modo di sentire e pensare mondo.
La Redazione de Le parole di Fedro ha progettato uno Speciale sui Romantici mettendo a fuoco taluni aspetti di Autori del XIX sec. Ad una fase di progettazione redazionale è seguita la stesura relativa agli Autori che ognuna/o ha proposto. Ne è nata una tavolozza di sguardi su quest’epoca e le sue innovazioni. Nulla di esaustivo ma, tutto nel segno del piacere della condivisione con Lettrici e lettori di Le parole di Fedro.
La Redazione de Le Parole di Fedro
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L’ebraico è lingua antica, almeno quella dal poeta conosciuta, sicuramente precedente alla rinascita dell’ebraico come lingua correntemente parlata, la quale ultima ha tanto in comune con l’ebraico biblico da Leopardi studiato da autodidatta, ma non può certo alla stessa essere sovrapposta.
Come sottolineato da Miriam Kay nella sua mirabile opera dedicata al rapporto tra Leopardi e la lingua ebraica1, non è certo facile collocare temporalmente gli studi di ebraico biblico di Leopardi nella sua età giovanile.
Tra l’altro la giovinezza del sommo poeta si inscrive in un periodo storico ampiamente posteriore alla controriforma, ove pertanto si riteneva che lo studio dell’ebraico antico non dovesse essere più appannaggio solo dei Maestri delle Sacre Scritture e quindi è facile immaginare che l’accesso a quelle fonti e studi non abbia incontrato per Leopardi eccessive resistenze ma, al contrario l’ausilio di competenze esterne eccelse. In altre parole, Leopardi è vissuto in un’epoca dove l’interesse per la conoscenza sia dei testi sacri in lingua ebraica che della struttura dell’ebraico antico ha vissuto una sorta di rinascita, anche in ambienti per nulla legati all’ebraismo del tempo.
È certo in ogni caso che un ruolo ebbe, anche in questo, il padre Monaldo Leopardi e la sua biblioteca, ove, il giovane poeta poté reperire numerosi volumi dedicati da un lato alla scrittura dei testi sacri, sia nell’originale ebraico che nelle traduzioni greche e latine, dall’altro di biblistica ed ermeneutica.
Sempre nel testo di Miriam Kay sopra citato2, in ogni caso sono documentati i testi di grammatica ebraica, lessici di lingua ebraica, e fonti di scritture sacre in ebraico antico, presenti nella famosa biblioteca di Monaldo Leopardi e che furono attento oggetto di studio autodidatta, non senza taluni aneddotici errori interpretativi interessanti, da parte del giovane poeta.
In ogni caso si può dire che la lingua ebraica antica per il poeta si caratterizza, al contrario ad esempio del greco antico e del francese a lui contemporaneo, per una certa povertà e naturale scarsità di mezzi in quanto “ con bastanti radici e derivati: o quasi priva”... e dunque non si può esprimere se non indefinitamente”3.
Tuttavia qui il termine povertà non assume per Leopardi connotazione negativa, e sul punto ci soffermeremo ampiamente in seguito.
Trovo, infatti, che sottolineare questo legame tra povertà e scarsità di mezzi e indefinito possa essere posta – la lancio come un’ipotesi possibile - come uno dei motivi della grande fertilità e proliferazioni che esegesi ed ermeneutica ebraica biblica hanno donato al mondo.
È mio parere infatti che ciò che è per sua natura indefinito possa dare vivacità proprio al tentativo di definizione/comprensione dei vari significanti che un passaggio biblico può avere.
Voglio dire che potrebbe essere oggetto di studio proprio l’elemento della relazione tra la conoscenza del limite della parola – di una parola povera - e il viaggio ermeneutico alla scoperta delle sue possibili estensioni.
In ogni caso, e sarebbe bene che la contemporanea poesia se ne ricordasse, quando siamo di fronte ad un indefinito (non voglio parlare qui ancora di indefinibile) il poetico sorge spontaneamente come risposta possibile, così come sorge immediatamente lo sforzo ermeneutico ed interpretativo.
In fondo, ogni indefinito richiama il viaggio della parola poetica da chi la scrive a chi la legge, luogo deputato alla sua completezza e completamento e questo elemento certamente non deve essere sfuggito a Leopardi che ben sapeva che peso possa avere in poesia saper lasciar il campo più aperto possibile a plurime interpretazioni, spiegazioni, visioni del verso.
L’indefinito di cui qui si parla, a parere di chi vi scrive, figlio per Leopardi di una povertà linguistica, diviene in un certo senso campo semantico possibile, forse più permeabile alle sollecitazioni ed ai richiami di un altrove battente.
A quanto pare tuttavia certo è che questo limite della lingua ebraica, secondo Leopardi, costituirebbe anche la sua grandezza.
Dove ad esempio il francese, per il poeta, per eccesso di precisione, di scientificità e specificità perderebbe elementi fondamentali del poetico a favore del prosaico, il contrario avverrebbe per l’ebraico antico, poco sviluppato, che avrebbe accesso “solo” al poetico a dispetto del prosaico.4
I testi sacri per Leopardi appaiono di per sé stessi poetici, anche se a volte privi di una struttura metrica riconoscibile ai più.
La povertà attribuita da Leopardi all’ebraico diviene, quindi, l’elemento su cui si fonda un’enorme ricchezza poetica ed espressiva che lo stesso percepisce in primis nel libro di Saul e, soprattutto, nei Salmi, vera somma poetica ebraica, secondo il poeta, e non solo.
Il sublime biblico troverebbe per il poeta, lo si ripete, espressione poetica proprio nella povertà della lingua ebraica da un lato e, dall’altro nel richiamarsi all’immaginario orientale e alle sue metafore che di quella povertà sono il creativo contraltare.
Che poi sempre Leopardi definisca questo sublime biblico come addirittura eccessivo, rispetto ad esempio a quello omerico, non impedisce al poeta di definire la bibbia come “gran fonte dello scrivere”.
Che si condivida o meno l’analisi sulla struttura della lingua ebraica antica operata da Giacomo Leopardi, tuttavia non si può rimarcare quanto estremamente rivoluzionario sia stato per il suo tempo saper cogliere, nell’epoca dell’orpello e del vezzo poetico in cui la sua produzione è immersa, proprio nella povertà lessicale e grammaticale di una lingua la fonte primaria della sua poeticità.
Un pensiero questo che affascina molto, e che ha un enorme impatto anche nel rapporto con la poesia contemporanea ove il ritorno alla radice della parola viene spesso visto come elemento di impoverimento creativo a cui far appello.
Ed è proprio dell’ermeneutica biblica un lavoro sui radicali della parola, connesso anche al valore numerico delle singole lettere, che creano, in caso di omovalore numerico per parole diverse, legami interpretativi del tutto inaspettati ed unici.
Non sto con questo sostenendo che Leopardi fosse a conoscenza degli studi di Ghematria – la disciplina dell’ermeneutica ebraica che associa alle lettere valori numerici - ma che proprio il fatto di valorizzare la povertà della lingua è uno, fra gli altri, degli elementi che permettono l’esistenza di quegli studi e discipline.
L’idea che la parola divina per essere comprensibile all’uomo e solo da lui interpretabile, abbia dovuto semplificarsi non è estranea al pensiero ebraico e Leopardi pare averla colta appieno, seppur da un punto di vista laterale che non poteva essere a conoscenza di ogni elemento della mistica ebraica antica e al poeta contemporanea. Una sorta di intuizione feconda, pertanto la sua, sulla quale ci sarebbe molto da riflettere anche nelle sue relazioni con la poesia contemporanea.
Verrebbe infatti da pensare a certe poesie in cui si sente come elemento di ricerca ed espressivo proprio la contrazione della parola. La parola che si contrae verso l’indefinito ha un senso etico, prima ancora che estetico, perché richiama la sua sorgente indefinibile per sua stessa natura: il Silenzio.
Interessante poi lo spunto e l’intuizione di Giacomo Leopardi in merito al fatto che gli stessi nomi delle lettere ebraiche sarebbero portatrici di significato
 
Ad esempio, in Zibaldone 2596 – nota 1 – il poeta annota:
 
Notisi che i nomi delle lettere ebraiche (onde derivano da quelle greche che in greco non significano niente) hanno tutti una significazione indipendente affatto dal suono della rispettiva lettera, e son parole della lingua,nè hanno relazione alcuna tra loro, né colla rispettiva lettera altro che il cominciare appunto per essa, come Alef- dottrina, Bet – Casa ecc.” (cfr in Miriam Kay op. cit pp 116).
In realtà questo pensiero che sicuramente poggia su dati di verità manca di una valutazione sull’aspetto grafico della lettera ebraica che pare essere sfuggita al poeta, che certo tutto non poteva sapere. Se da un lato è sicuramente vero che, ad esempio, Bet (ב) significa casa e non è solo il nome di una lettera, è altrettanto vero che proprio la struttura grafica della stessa lettera ci suggerisce la forma di una casa, con un pavimento, un soffitto, un muro portante e un’apertura verso l’esterno.
Tuttavia questo non è vero di tutte le lettere dello Alef-Bet; ad esempio la Alef (א), nella sua grafia, ricorda una testa di bue.
In altre parole mancherebbe al poeta, che comunque manifesta intuizioni pregevoli e di sicura importanza e pregnanza, la comprensione dello stretto legame delle lettere ebraiche non solo col significato di cui sono portatrici come parole ma anche con la loro struttura grafica che, seppur non ideogrammatica, richiama sempre ad un oggetto o a un concetto semi-astratto.
Così ad esempio se analizziamo il suono del nome della Iod (י) abbiamo un immediato richiamo all’idea di una mano (in ebraico Iad), tuttavia se della stessa lettera analizziamo l’aspetto grafico, e la cosa al Leopardi pare esser sfuggita, abbiamo immediatamente un richiamo ad una fiammella vitale, libera e generatrice di vita (ricordo la Iod essere la prima lettera del Tetragramma).
La cosa non è priva di peso nella storia dell’ermeneutica ebraica biblica. Ma, tralasciando il peso che nell'interpretazione biblica questo aspetto mantiene, parrebbe di poterlo legare all’idea sovraesposta di una lingua capace di poeticità anche in prosa.
In altre parole il testo sacro ebraico va certamente letto e compreso nei suoi significati, ma è anche possibile ricavarne degli insegnamenti osservando con attenzione anche solamente i legami tra le scritture grafiche delle varie lettere.
Un esempio per tutti: se immaginiamo di unire Vav (ו) con Zain(ז) otteniamo la Het (ח), che nello Alef Bet è la lettera che segue le precedenti due.
Questa osservazione non vuole certo essere una critica alle intuizioni del sommo poeta, ma solo un ampliamento possibile sul fatto che si potrebbe ipotizzare come ulteriore contraltare della povertà della lingua ebraica su cui Leopardi si conferma, proprio la sua struttura grafica.
In conclusione possiamo, senza tema di smentita, sostenere che le intuizioni di Giacomo Leopardi attorno alla struttura dell’ebraico antico siano di estrema delicatezza e importanza e possono, lateralmente, illuminare anche il rapporto del poeta con altre espressioni linguistiche (come si diceva sopra greco antico e francese a lui contemporaneo).
Non v’è dubbio che, mancando di decennali studi biblico-ermeneutici, al poeta si mancato qualche ulteriore elemento interpretativo sulla struttura della lingua, ma appare quasi miracoloso come la percezione di un autodidatta ad un lingua nella sua semplicità estremamente complessa gli abbia permesso di tracciare fugaci intuizioni che potrebbero ed dovrebbero essere più ampiamente sviluppate.
Appare a chi vi scrive, e qui concludo, che Giacomo Leopardi, abbia assunto nei confronti dell’ebraico antico la corretta postura, ponendosi lecite e profonde domande sulla sua struttura linguistica che lo hanno portato a cogliere elementi di ricchezza certa sui quali ben pochi pensatori dell’epoca, fuori dai circoli ebraici ristretti, hanno saputo soffermarsi. Quella del poeta pare essere stata una immersione spontanea e profonda nella lingua ebraica dalla quale, riemergendo, ha saputo riportare gemme preziose e dense di significato.

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NOTE
1 La più antica immaginazione – Leopardi e l’ebraico; Marsilio editori, 2023
2 Ibid pp. 31-37
3 Zib. 806-807 e 3021
4 Cfr op. cit. Mirima Kay pp. 132 -133 e fonti dello Zibaldone ivi citate

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