(Redazione) - Speciale "I Romantici" - “Una partita a scacchi di Giuseppe Giacosa" di Gianni Antonio Palumbo

 
di Gianni Antonio Palumbo
 
GUSTAVE DORÈ - LE OCEANIDI

I Romantici hanno aperto sulla nostra contemporaneità, hanno coniato mutamento radicale del modo di sentire e pensare mondo.
La Redazione de Le parole di Fedro ha progettato uno Speciale sui Romantici mettendo a fuoco taluni aspetti di Autori del XIX sec. Ad una fase di progettazione redazionale è seguita la stesura relativa agli Autori che ognuna/o ha proposto. Ne è nata una tavolozza di sguardi su quest’epoca e le sue innovazioni. Nulla di esaustivo ma, tutto nel segno del piacere della condivisione con Lettrici e lettori di Le parole di Fedro.

La Redazione de Le Parole di Fedro
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Giuseppe Giacosa (1847-1906) è figura che meriterebbe senz’altro maggior spazio e considerazione nel panorama della letteratura italiana del secondo Ottocento. Conosciuto per aver composto, insieme a Luigi Illica, i libretti delle opere La bohème, Tosca e Madama Butterfly, poi musicate da Giacomo Puccini, fu autore di celebri testi teatrali, tra i quali si rammentano soprattutto Tristi amori, che Giovanni Verga definì, in un pezzo su “La Lettura” dell’ottobre 1906, “un capolavoro e una gloria del teatro italiano”, e Come le foglie. In merito a quest’ultimo, Roberto Alonge, con la consueta lucidità di analisi, scrisse che, in quest’opera, Giacosa, “sperimentatore vero”, “costruisce un altro prototipo geniale” (“altro” in rapporto proprio a Tristi amori, più vicino, secondo il critico, al teatro ibseniano), “quello del dramma corale, con molti personaggi protagonisti, fatto per smottamenti progressivi del dialogo, fondato sui lunghi silenzi, sussurri, pianti improvvisi”, una sorta quasi di ideale passaggio “Da Ibsen a Čechov)”.
Sicuramente, dunque, a dispetto del giudizio che ne diede Benedetto Croce, un autore da riscoprire ed esplorare, nella drammaturgia e nella narrativa (si veda, su tutti, lo splendido Novelle e paesi valdostani) come nei carteggi. Ricordiamo, per esempio le corrispondenze epistolari con Verga e Fogazzaro, la cui pubblicazione è stata curata da Oreste Palmiero, nel secondo caso con la bella prefazione di Fabio Finotti.
In questa sede ci soffermeremo su uno dei più celebri testi (ben differenti da quelli precedentemente citati e più vicini al gusto romantico) del primo Giacosa, che amava gli scenari di un Medioevo fiabesco canavesano o valdostano. Il riferimento specifico è a una delle sue opere di maggior successo, divenuta iconica; stiamo parlando della “fiaba in versi” o “leggenda drammatica in un atto” dal titolo Una partita a scacchi. L’opera fu rappresentata, nella prima uscita in scena, presso l’Accademia Filarmonica di Napoli, nell’aprile 1873. La realizzazione teatrale era però stata preceduta dalla pubblicazione su periodico, la “Nuova Antologia”, nel 1872. L’opzione per una prima fruizione tramite lettura era legata ai dubbi sulla “teatrabilità” dell’opera, di cui invece fu certo il drammaturgo Achille Torelli che la volle in scena a Napoli, mostrando – come scrisse Nardi – il “colpo d’occhio dell’uomo di mestiere”. La Partita, infatti, avrebbe avuto grande fortuna, non inficiata da affondi critici ingenerosi quali quelli di Benedetto Croce (“Il movimento di affetti, non appena spunta, è già superficializzato nella declamazione”) e di Giosue Carducci. Quest’ultimo accusò Giacosa di aver scritto “tali e tanti spropositi di medioevo, che, se potesse un giorno arrivare a capirli, dalla disperazione e da’ rimorsi si affogherebbe ne’ suoi propri versi martelliani a tre code di aggettivi”. Eppure, come ha evidenziato Anna Barsotti, a Carducci sfuggì come a Giacosa non interessasse puntare su una rigorosa ricostruzione storica, quanto “evocare un Medio Evo mitologico e romantico, per raccontare la fiaba lirica dei suoi sogni di adolescente suggestionato dal paesaggio piemontese che gli era più familiare: il Canavese e la Val d’Aosta”.
Primo elemento a disturbare l’erudizione carducciana era il fatto che, rinverdendo il topos del manoscritto, Giacosa dichiarasse di essersi rifatto a “una romanza scritta circa il mille e trecento”, “in lingua provenzale”. Ora, la fonte era lo Huon de Bordeaux, non una “romanza provenzale” ma una delle più note chanson de gestes in antico francese. Vi era effettivamente il motivo della partita a scacchi tra Huon e la figlia dell’ammiraglio Yvorin. In realtà, l’episodio non era particolarmente pervaso di romanticismo; il premio – se l’avventuriero fosse risultato vincitore – sarebbe stato una notte d’amore e non il suggello dell’unione coniugale e, di fatto, lo scaltro vincitore avrebbe preferito una favorevole transazione economica al godimento delle pur gradite grazie della fanciulla.
Questa scaltrezza da uomini di mondo è totalmente assente nel protagonista maschile della “leggenda drammatica” di Giacosa, che vive tutta della giovinezza ardente del paggio Fernando, quasi cieco nella sua confidente autostima, e, in questo caso sì, della fresca malizia della bella Iolanda, sua rivale nella partita eponima. Sembra di vedervi riflessi, soprattutto limitatamente agli ultimi due, i tre “concetti fondamentali” della “letteratura nel medio evo” che De Sanctis individuava ne “L’altro mondo, la cavalleria, l’amore platonico”.
Questa congerie fumosa di ideali astratti agita il cuore del protagonista Fernando e lo conduce a rischiare la vita sconsideratamente.
La “scena prima”, infatti, si apre (siamo – indica l’autore – nel secolo XIV) nella solitudine del castello valdostano di Renato. La prima battuta è affidata alla figlia del castellano, la bella Iolanda, ed è una reminiscenza dantesca. La giovinetta, infatti, lamenta la presenza della “pioggia, continua, fredda, incessante e greve!”, con chiaro riferimento al canto VI dell’Inferno. Tutto è funzionale a pennellare un’atmosfera ai limiti del romitaggio, in cui il principale diletto sembrerebbe rappresentato dallo “sciogliere al fuoco le membra intirizzite”. Eppure, quest’insistenza su una condizione di gelo atmosferico è funzionale all’introduzione di un altro tema. Iolanda pare insensibile ai richiami d’amore, cui il padre cerca di farla dischiudere vuoi per un desiderio di perpetuazione della casata e la legittima, un po’ egoistica, aspirazione a diventare nonno (“Sai, si diventa padre per diventare poi nonno… / I vecchi rimbambiscono ed amano i trastulli. / Non fosse che a sgridarli, mi voglion fanciulli”), vuoi per la legge dell’ineluttabilità dell’amore e del rimpianto che nella vecchiaia coglierà chi non ne abbia goduto i fiori, topos di tanta letteratura italiana. Si pensi, per esempio, alle argomentazioni di Dafne che cerca di convincere Silvia a cedere agli impulsi amorosi nell’Aminta di Tasso.
Iolanda ha un atteggiamento di bonaria ironia a fronte dei tentativi paterni. Sorridendo, ipotizza – ma si tratta di una burla – la possibilità di un convento (“Sì, fonderò un convento per farmene badessa”), per poi rivelare, in quest’amabile contrasto, la verità della sua attesa. Iolanda è perduta nelle sue fantasie, si culla “in visioni celesti”; in una parola potremmo dire che insegue quello che De Sanctis chiamò, riferendosi al Recanatese nel saggio La Nerina di Giacomo Leopardi, il “fantasma del desiderio”, nella fattispecie l’immaginazione di un “forte e bello” ancora non materializzatosi nel castello avito. Il padre, ovviamente, ha dalla sua le armi del calcolo e infatti le rimprovera l’aver rinunciato a illustri partiti. Il tenore della conversazione è tutt’altro che sostenuto e aulico. Il lettore ne avrà avuto immediata contezza dai versi citati tra parentesi. è una schermaglia dimessa e arguta, in cui emerge anche il senso pratico di Iolanda e la naturalezza con cui persegue anche il piacere sensuale. Quando il padre le rammenta il duca di Rosalba, la giovane prorompe in un “E’ sarà stato un forte, padre, ma bello… via!” Inutilmente Renato le ricorda che la generosità dell’animo, intesa anche quale valore eroico, sopravanza la bellezza. Iolanda gli risponde: “Sì, ma non veggo l’animo e veggo la sembianza” e qui potremmo ricondurci a un celebre battuta del Secretum, ora ribaltata, in cui Petrarca si arrampicava sugli specchi tentando di minimizzare la natura sensuale del suo trasporto per Laura. A Sant’Agostino che gli chiedeva (si cita la traduzione di Carrara) se gli sarebbe “del pari piaciuto” l’animo di Laura, qualora avesse albergato “in un corpo squallido e rozzo”, Francesco aveva risposto: “se apparisse alla vista, amerei senza dubbio la bellezza di un animo anche se avesse un deforme albergo”. La ragazza non ha invece bisogno di giustificarsi con queste argomentazioni capziose; il duca di Rosalba avrà un animo generoso, ma ciò che si vede (e che attrae) è il corpo, aspetto che nel caso specifico lasciava a desiderare…
Poi, però, con l’ospite inatteso, Oliviero conte di Fombrone, arriva al castello un paggio, Fernando, che si è distinto per l’eroismo con cui ha difeso il padrone da un assalto brigantesco. Tutto in Fernando spira giovinezza e beltà. Il giovane s’è fatto da sé, e lo sottolinea. Non ha conosciuto padre né madre; incede nel mondo, forte del proprio ardimento e, per usare un termine oggi di moda, della sua self-confidence. L’eccesso di quest’ultima qualità disturba e al contempo conquista Renato. Decide di sottoporlo a una prova, indotto anche dall’autodecantazione da parte del giovane delle proprie doti di scacchista. Fernando sfiderà Iolanda in un partita; se vincerà, l’avrà in sposa. Diversamente, sarà ucciso. La giovinetta diventa così, in maniera del tutto inconsapevole, potenziale angelo della morte. Fernando, acceso da una di quelle passioni subitanee cui il teatro internazionale ci ha abituati, decide di giocare il tutto per tutto, e forse anche morire. Il castellano ha un atteggiamento ambivalente: vorrebbe punire il paggio, che gli appare eccessivamente autocelebrativo e a tratti anche vagamente insolente, ma in fondo ha timore che perda. Non vorrebbe vederlo perire e, infatti, quando, a partita avviata, il giovanotto sembra – estasiato dalla bellezza di Iolanda – sbagliare una mossa dopo l’altra, Renato cerca di annullare la scommessa, nel preciso intento di salvare la vita del ragazzo. Fernando, d’altro canto, non demorde. Sua è l’indole del cavaliere che, tutto compreso nella sua quête di «finamor», non abbandona il tavolo da gioco.
D’altro canto, l’ansia per la posta in palio e il fascino della ragazza contribuiscono a rendere deconcentrato Fernando e fanno scaturire il malizioso interrogativo di Iolanda, divenuto popolarissimo, riecheggiato come un refrain nel corso dell’intera “leggenda drammatica”, per esser poi ribadito – con variazione – in chiusura. “Iolanda: Che hai, paggio Fernando? Non giochi e non favelli. Fernando: Io?... Ti guardo negli occhi che sono tanto belli”.
La partita s’intreccia al dialogo tra i due giovani; Iolanda non manca di fare allusioni a possibili conquiste amorose del giovanotto. Nostalgico, il paggio dice di sospirare le sue terre lontane, affermazione che la ragazza, scaltra, completa in rima, ammiccando, con “E gli sguardi ottenuti di belle castellane”.
Il gioco diventa metafora della seduzione; Fernando deve sconfiggere la ritrosia di Iolanda all’amore e, da una condizione di svantaggio (apparente sotto il profilo sentimentale, reale sotto quello sociale), giungere alla vittoria della partita. La ragazza finge di voler vincere la sfida, ma, nel momento in cui Fernando si lascia sfuggire la rivelazione della posta in gioco, confesserà di essersi affannata sin dal principio della gara “Per goder quest’ebbrezza che ogni ebbrezza scolora”: la malia dell’amore che il paggio aveva definito proprio con quella perifrasi (“Se non fosse che un’ora / Un’ora dell’ebbrezza che ogni ebbrezza scolora; / Le mie pupille un’ora fissate nelle tue / E poi venga il destino”). La seduzione è assimilabile dunque alla finta partita tra i due; Iolanda ha già deciso sin dal primo istante che accetterà l’amore di Fernando, ma non vuole dargli l’impressione di aver ceduto subito. Lascia che il ragazzo s’illuda di essere il vincitore, ma è sempre lei a condurre le redini del gioco, a simulare distrazioni, a lasciarsi infine mettere sotto scacco.
A tal proposito è interessante anche notare il tenore degli interventi finali di Renato. Come si è detto, quando aveva veduto il ragazzo in svantaggio, aveva cercato di annullare la scommessa, allo scopo di salvargli la vita. Nel momento in cui, invece, si accorge che Iolanda sta per perdere, subentra in lui un’ulteriore tensione. Emerge la gelosia del padre che non vuole dividere con alcuno l’amore della figlia adorata, in piena contraddizione con quanto aveva asserito all’inizio della pièce. Entra in gioco, però, anche un altro fattore: la disparità di carattere sociale. “Iolanda è bella, è ricca, e… se tuo padre tel dice, / A lungo non potrebbe esser con te felice”. Eppure non è trascorsa invano un’intera tradizione che asserisce la preminenza della nobiltà del cuore rispetto a quella “di schiatta” nelle questioni d’amore. La lotta tra Amore e Punto d’Onore non ha storia; Iolanda non è parente delle Ghismunde o delle Lisabette soccombenti, ma semmai di Madonna Giovanna che rivendicava il diritto di scegliere Federigo, un uomo bisognoso di ricchezza e non un ricchezza cui facesse difetto l’uomo. Tra l’altro, l’intenzione di Giacosa è quella di ribaltare lo Huon de Bordeaux. A Renato spetta dunque rinnovellare le parti di Yvorin e provare a sostituire la fanciulla-premio con una cessione di ricchezze: “Scegli fra i miei castelli / Il più forte, il più ricco”. Renato non è però Huon, il suo cuore non si può comprare. Iolanda potrà così dire al padre, ammiccando, che “M’offrivate uno sposo e lo scegliemmo in due”, prima che il sipario si chiuda, ribadendo il principio del legame tra l’Amore e gli occhi con il refrain, motivo portante dell’onda musicale di questa Partita piena di grazia.
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Commenti

  1. Davvero meraviglioso intrigante questo romantico su Giocosa. Grazie poiché alcuni aspetti storici mi erano sconosciuti.
    Bravissimo Sergio Donati. Alba
    A
    A
    Al.

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