(Redazione) - Speciale "I Romantici" - “ Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste: sul romanticismo di Friedrich Hölderlin" di Maria Consiglia Alvino


di Maria Consiglia Alvino
 
JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER - ALBA SUL LAGO DI LUCERNA
 
I Romantici hanno aperto sulla nostra contemporaneità, hanno coniato mutamento radicale del modo di sentire e pensare mondo.
La Redazione de Le parole di Fedro ha progettato uno Speciale sui Romantici mettendo a fuoco taluni aspetti di Autori del XIX sec. Ad una fase di progettazione redazionale è seguita la stesura relativa agli Autori che ognuna/o ha proposto. Ne è nata una tavolozza di sguardi su quest’epoca e le sue innovazioni. Nulla di esaustivo ma, tutto nel segno del piacere della condivisione con Lettrici e lettori di Le parole di Fedro.

La Redazione de Le Parole di Fedro
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È difficile inquadrare una personalità complessa come quella di Friederich Hölderlin (Lauffen am Neckar, 20 marzo 1770 – Tübingen, 7 giugno 1843) in una etichetta univoca. La sola definizione di “romantico” non basta, infatti, a chiarirne le oscurità, le scissioni, la tragicità del sentimento del mondo e del tempo che ne innervano l’intera produzione, finanche quella degli anni della “follia” (1807-1843) trascorsi nella torre di Ernst Zimmer a Tübingen. Proveremo, tuttavia, ad analizzare alcuni motivi ricorrenti, quando non delle ossessioni, che ricorrono nelle liriche dello Svevo per tutto l’arco della sua vita: la ricerca dell’Assoluto e di un’Armonia semplice e unica; il ritorno alla Natura e al mondo greco come maestri; la consapevolezza tragica dell’impossibilità di colmare le scissioni al fondo dell’Essere; il sentimento drammatico del limite gnoseologico ed ermeneutico del liguaggio; la ricerca di un superamento di tale limite nell’Amore.
Certo, alcuni temi sono in linea con quello specifico Zeitgeist che chiamiamo “Romanticismo”. E le frequentazioni dell’autore nate in seno allo Stift di Tübingen, su tutte Hegel, e poi a Jena, in particolare Schelling, non potevano non lasciare la loro impronta su un’anima di per sé tesa alla ricerca dell’Assoluto, dell’Infinito, della Bellezza. Su tale ricerca pesavano parimenti i Greci, Platone e Pindaro, con i suoi voli solari, e, all’opposto, i tragici ed Empedocle. Ma riduttivo sarebbe spiegare la drammaticità alla base della poesia di Hölderlin con questioni biografiche o meramente culturali, ché la sua produzione testimonia il percorso di ricerca lungo una vita intera di un’anima che sentiva la pressione dell’indicibile e che ne rimase di fatto sopraffatta.
È, quella di Hölderlin, una poesia contemplativa, specialmente nella fase giovanile. La Natura, insieme alla casa materna di Lauffen am Neckar, è madre e riparo. Ad essa in più liriche il poeta si abbandona spinto da un afflato più panteistico in senso spinoziano che dalla necessità di definire la relazione tra Io e Mondo o la positività o negatività di esso rispetto all’Io, come sarà per Schelling e per Hegel. E ogni elemento della natura, gli alberi, le acque, le stelle divengono, come per Empedocle, semi del tutto, molteplici parti di un Uno che tutto contiene. È una Natura sacra e maestra, nelle cui parti infinitesimamente piccole è possibile contemplare l’infinito.
È una Natura nella quale il poeta ricerca un’inattingibile solarità greca, alla maniera pindarica, dalla quale tuttavia rimarrà escluso, pur avvertendola per differenza nella forma di Sehnsucht; di quella nostalgia, cioè, per un’era perduta in cui gli dei camminavano con gli uomini e nella quale era possibile l’unità dell’Io e l’unità tra Io e Natura. Ritorno alla grecità e ritorno alla Natura sono, dunque, due facce della stessa medaglia: la ricerca di una Bellezza, di un’Armonia possibile a questo mondo. In questo senso, ben capiamo il classicismo di Hölderlin: non si trattava, come fu anche per Leopardi, di guardare alle forme classiche come paradigmi stantii e resi inamovibili dalla tradizione, ma di ritornare alla Grecia come modello di un senso del divino che riconciliasse tramite la parola, e la parola poetica, le scissioni dell’io. Emblematica, in tal senso, è la lirica, di sapore epigrammatico, 
 
Ai giovani poeti:
«Amati fratelli, la nostra arte – giacché simile a un adolescente, a lungo ha fermentato – forse sarà presto matura nella serenità della Bellezza. Soltanto siate religiosi come furono i Greci.
Amate gli Dei e abbiate per i mortali pensieri d’amicizia. Odiate l’ubriachezza come la frigidezza. Non insegnate. Non descrivete. Se il Maestro vi angoscia, chiedete consiglio alla grande Natura»1.

Eppure è la stessa condizione di desiderio e di mancanza, anche questa cara al mondo greco e in particolare al Platone del Simposio e del Fedro, che getta l’io nella consapevolezza di un’irrimediabile scissione alla base del tutto. La pacificazione dell’anima data dalla Natura è dunque solo temporanea, mai assoluta. Temporanea in quanto, generando la Natura con la sua bellezza ricordi, nostalgie e fantasie mitiche, non fa che rigettare l’io nel suo stato di crisi e di mancanza, dunque di desiderio. Finanche nelle liriche della “follia”, firmate con lo pseudonimo di Scardanelli, questa consapevolezza emerge con profonda lucidità. In Der Mensch (L’uomo, datata 28 luglio 1842), l’io poetante così si esprime:
«Chi vive a sé e si mostra quanto resta,
è come dividesse il giorno in giorni.
È un piegarsi squisito a “ciò che resta”,
diviso da natura, senza invidie.
È come solo, in altro, vasto vivere,
con verdi primavere e lente estati amiche,
finché cala veloce l’annata nell’autunno
e ci avvolgono sempre nubi e nubi».
 
È questa la tragicità profonda della poesia di Hölderlin: il suo configurarsi come poesia umbratile e desiderante, anelante alla luce e mai di essa paga; una poesia che rivela la consapevolezza profonda dell’impossibilità di sanare le fratture. Unica strada per arrivare all’Essere è, in senso del tutto platonico, l’intuizione intellettuale, facoltà che, fuori dai limiti posti dal criticismo kantiano, può secondo Hölderlin fungere da elemento di unione tra l’io empirico e l’infinità della natura. Chi la percepisce è divino, perché l’Unità è la condizione di vita degli dei: “Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei”2 (Iperione).
Ma è questa condizione non permanente e non a tutti attingibile. La coscienza vertiginosa del baratro genera un’inquietudine che smaschera allora la fragilità dell’io poetante, cioè dell’io vivente, finanche nella lingua, che perde ogni possibilità ermeneutica e comunicativa. È una lingua, quella di Hölderlin, che nella sua frammentazione manifesta le pressioni dell’indicibile, stretta tra il desiderio di infinito e un senso profondo del limite; è la lingua spezzata di un canto incompiuto.
«Noi siamo un segno non significante,
indolore, quasi abbiamo perduto
nell’esilio il linguaggio» 
 
(da Mnemosyne, seconda stesura, 1803)
 
Cosa resta, quindi, all’uomo, al poeta, di questa vita malata alla base e di fatto insanabile? I dualismi entro cui la realtà è compresa (io/non io; finito/infinito; luce/ombra; vita/morte) non possono essere risolti se non attraverso una forma di conoscenza che non passi dalla mente, bensì dalla relazione, cioè dall’Amore.
È l’Amore che in ultima analisi consente all’io di stare al mondo, pur nella tragica consapevolezza del proprio limite, pur contemplando l’abisso.
L’Amore è l’unico rimedio alla malattia che pervade il tutto, la Natura, la vita stessa degli enti; l’unico rimedio al terrore (die Furcht) che prende chi sia giunto alla coscienza della ineluttabile digregazione del tutto. In La fede (1799-1800) tale acquisizione risulta chiaramente espressa:
«Vita, Bellezza. Sei malata. Ho il cuore
stanco di pianto. Albeggia in me il terrore.
Eppure non so credere che tu
possa morire, fino a che amerai».

E l’Amore, inoltre, è ciò che al di là di ogni conoscenza intellettuale connette alla profondità della vita (Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste), come si evince dalla lirica, di sapore epigrammatico, Socrate e Alcibiade:
 
«“Perché, divino Socrate, sei indulgente con questo giovane, sempre? Non conosci nulla di più grande? Perché i tuoi occhi si posano su di lui come sugli Dei – con amore?
Chi ha pensato a ciò che è più profondo ama ciò che è più vivo. Chi ha gettato lo sguardo dentro il mondo intende l’alta Giovinezza. E i saggi propendono molte volte al Bello – alla fine”».
Alla fine, quindi, al di là dell’Io, della Natura, del linguaggio, resta solo l’amore. E La foresta, l’ultima lirica, di datazione tardiva, attribuita con certezza all’autore nei frustuli dell’edizione stoccardiana, sembra drammaticamente condensare, al di là dell’andamento frammentario, tutta la filosofia del “poeta folle”:
Tu nobile belva.
Ma l’uomo abita in capanne e si avvolge d’una veste vergognosa, perché è più segreto, più attento anche, e serbare lo spirito come la sacerdotessa la fiamma del cielo è appunto la sua intelligenza. Per questo ha libertà di volere e un più alto potere di mancare come di compiere; e a questo uomo fatto a somiglianza degli Dei fu dato il più pericoloso dei beni, il linguaggio, perché – creando distruggendo cadendo ritornando alla Maestra, alla Madre eternamente viva – testimoniasse il suo essere, l’essere erede, l’avere imparato da lei, divina fra tutte le cose, l’Amore che tutto regge.

Perché egli in nulla perdura.
Nessun segno
L’incatena.
Non sempre

Un ricettacolo per contenerlo.

La mia opera procede da Dio.

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NOTE
1 Qui e di seguito le traduzioni italiane sono a cura di E. Mandruzzato in F. Hölderlin, Le liriche, Milano, Adelphi, 1977.
2 Traduzione italiana di G.V. Amoretti in F. Hölderlin, Iperione, Milano, Feltrinelli 2013.
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Commenti

  1. Meravigliosa, si sente che ami ciò che hai condiviso. Sei speciale, grazie.

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