Nel
1939, il numero 33 del “Quadrivio” ospitava un articolo dello
scrittore Dino Terra su L’Aminta
a Boboli,
recensione dell’allestimento della favola pastorale di Torquato
Tasso nel “maggio fiorentino”, per la regia di Renato Simoni.
Terra definiva l’opera, oltre che un capolavoro,
il “fragrante
frutto dell’ultimo classicismo, dramma tutto soffuso dalla Grazia”.
Anche per Giosue Carducci l’Aminta
era
un portento e del fascino di quest’opera non dové essere
inconsapevole neppure il suo artefice, Torquato Tasso se definì le
proprie, in un sonetto a Giovanni Antonio Vandali, “Ardite sí, ma
pur felici carte”. Cantando questi “vaghi pastorali amori” egli
era riuscito a trasfondere “ne le rive del Po con novell’arte”
il culto “de’ greci antichi allori”. Una primizia che sapeva
dunque di antico ma guardava alla realtà contemporanea, come
evidenzia il bellissimo coro al termine del primo atto, dedicato al
tema dell’età dell’oro.
L’opera è stata a lungo giudicata quale parentesi felice nell’inquieto percorso artistico-esistenziale di Tasso, ma non a caso Giovanni da Pozzo, in un’importante monografia, ha posto l’accento sull’“ambigua armonia” di questa favola destinata alle scene.
Un
testo che ha molteplici chiavi interpretative, a cominciare dal
recupero di quel fattore, tipico del codice pastorale, che è la
coabitazione nella dimensione idillica di “divinità, pastori e
uomini assolutamente reali e contemporanei all’artista” (Maria
Corti). Nel personaggio di Licori è rappresentata Lucrezia Bendidio,
dedicataria di alcune rime di Torquato; in Elpino è Giovan Battista
Pigna, segretario ducale; il “dio”, che riprende il deus
delle
virgiliane Bucoliche,
è Alfonso II d’Este, all’epoca protettore dell’autore. In
Tirsi Torquato Tasso rappresentò sé stesso, al punto che dall’opera
si possono inferire elementi relativi alla sua datazione, nel momento
in cui la matura ninfa Dafne gli si rivolge dicendo: “Horsú,
Tirsi, non vuoi / tu inamorarti? Sei giovane ancora, / né passi di
quattr’anni il quinto lustro, / Se ben sovviemmi, quando eri
fanciullo” (atto II, scena II; si cita dall’edizione critica a
cura di Davide Colussi e Paolo Trovato, Torino 2021). è
dunque presumibile che il testo sia stato composto nel 1573; questo,
secondo tradizione, sarebbe stato anche l’anno di rappresentazione
della “favola pastorale” o “favola boscareccia” (Tasso, però,
si riferiva a essa anche col termine “egloga”). Su questo primo
allestimento non si hanno notizie certe. Si è ipotizzato che
avvenisse presso l’isoletta del Belvedere o comunque, come scrive
Corradini, “nel circuito delle residenze estensi”. Il dato certo
è, però, che la favola fu rappresentata nel 1574 a Pesaro, per
volontà di Lucrezia d’Este, sorella di Alfonso. Di quella
messinscena resta una testimonianza di Tiberio Almerici, che scrisse
al cugino Virginio come la rappresentazione fosse condotta da “alcuni
giovini d’Urbino” e, anche se la recitazione non si espresse al
meglio, emersero la qualità del testo e la dipintura degli
“affetti”. La prima edizione a stampa risale, invece, al 1580 e
fu realizzata da Cristoforo Draconi a Cremona.
L’opera
si innestava in un panorama in cui si possono citare l’Egle
di
Giraldi Cinzio, tesa a rivivificare la tradizione del dramma
satiresco dell’antica Grecia, e poi le pastorali ferrarsi Il
Sacrificio di
Agostino Beccari (1554), l’Aretusa
di
Alberto Lollio (1563) e Lo
Sfortunato di
Agostino Argenti (1567). Rispetto a questi testi, però, l’opera di
Tasso si stagliava artisticamente per numerose ragioni. La prima è
il confronto costante con una tradizione alta, in particolar modo
tragica (oltre che con gli idilli teocritei e il romanzo pastorale
greco). Tale attitudine portava a un generale innalzamento del tono e
ad accantonare la tendenza alla precipitazione che talora connotava i
lavori precedenti, ascrivibile, in quei casi, alla volontà di
aderire all’indole sensuale e sboccata dei satiri e dei caprai. La
seconda è, sempre in linea con lo sguardo rivolto al genere tragico,
il potenziamento dell’elemento corale. I canti corali amintei, pur
serbando legami con essa, sono generalmente indipendenti dalla trama
e divengono portatori, in alcuni casi, di idee forti dell’autore.
Rimane memorabile il coro del primo atto, con cui poi dialogò,
ribaltandolo, Battista Guarini nell’atto IV del Pastor
fido.
L’edonismo melancolico che sostanziava il tassesco “S’ei piace,
ei lice” veniva infatti contrappuntato dal controriformistico “cui
dettava Onestà: ‘Piaccia, se lice’” (Guarini). Nel celebre
canto corale, Tasso sosteneva, pur non negando tali aspetti, che il
pregio dell’età dell’oro non risiedesse nei, pur innegabili,
prodigi della Natura cari alla tradizione (fiumi di latte, terra
produttiva senza la necessità del duro lavoro agrario ecc.), ma
piuttosto nel libero dispiegarsi dell’Eros, non ancora offuscato da
un malinteso senso dell’Onore. Quest’ultimo definito “Quell’Idolo
d’errori, idol d’inganno” non aveva ancora proteso la sua ombra
annichilente sul lieto mondo dei pastori: “Né fu sua dura legge /
nota a quell’alme in libertade avezze, /
ma legge aurea e
felice / che natura scolpí, ‘S’ei piace, ei lice’”. Versi
bellissimi, cui non rende di certo giustizia l’asserzione
carducciana che il canto era “ispirato elementarmente da un’elegia
di Tibullo (3a
del II libro)”… Come ha ben spiegato Claudio Gigante, Tasso,
mellificando versi di Teocrito, Sannazaro, Tansillo e attingendo
probabilmente anche alla poesia comico-realistica, ha compiuto
un’operazione più complessa: “se ha sfruttato un campionario di
immagini e di espressioni di provenienza ‘bassa’, estranee ai
piani alti della tradizione bucolica (…), le ha riformulate
depurandole dagli accenti plebei e dal tono da burla”. La dominante
di questo canto è infatti quella melancolia che De Sanctis vide
radicata in Tasso come in Petrarca e a cui Giovanni Getto ha dedicato
una celebre monografia. Il canto corale si chiude non a caso sulla
ripresa e riscrittura del catulliano Soles
occidere et redire possunt,
pieno riconoscimento dell’umana finitudine.
Un
terzo fattore che distingue l’Aminta
è l’onda musicale in cui essa si risolve. Nel fluire di
endecasillabi e settenari, la favola appare un canto ininterrotto; da
questo deriva l’impressione di una sovrana armonia. La felicitas
musicale,
unitamente al lieto fine, ha tratto in inganno. Ha proiettato la sua
aura sull’intera opera, occultandone le zone d’ombre. Ciò non
toglie ch’esse rimangano e costituiscano, anzi, uno dei fattori di
maggior fascino dell’‘egloga’ di Tasso.
Inoltre,
già la lettera di Almerici segnalava un certo livello di
semplificazione della trama, evidentemente rispetto alle altre
pastorali note. Il poeta costruiva non un garbuglio di amori e
non-amori immessi in un reticolo di corrispondenze e a-corrispondenze
ma optava per un’unica vicenda portante, quella che Amore sfuggito
a Venere chiariva sin dal prologo, ispirato a un idillio di Mosco.
Tornava
il mito dell’euripideo Ippolito, punito per il rifiuto della vita
amorosa; quella vicenda era stata riscritta nello Iulio di Agnolo
Poliziano e ora conosce cittadinanza nelle attraenti forme di Silvia,
la ninfa dei boschi, consacrata a Diana e sdegnosa verso le panie di
Cupido. Strumento della vendetta di Amore sarà il giovane pastore
Aminta, compagno della fanciullezza e della giovinezza di Silvia, di
lei innamorato e da lei ora veementemente respinto. A duettare con i
due potenziali amanti sono un’altra ninfa, Dafne, più matura, che
cerca di indurre Silvia a cedere alla forza di Eros secondo
argomentazioni che Leopardi avrà ben presenti nel Passero
solitario,
e poi Tirsi, alter
ego
di Torquato Tasso. Aminta si dispera; il saggio Mopso gli ha predetto
sventura e infelicità. Ed ecco che nasce uno dei movimenti più
fascinosi e misteriosi dell’egloga. “Di qual Mopso tu dici? Di
quel Mopso, / c’ha ne la lingua melate parole, / e ne le labra un
amichevol ghigno, / e la fraude nel seno, et il rasoio / tien sotto
il manto?” Mopso aveva cercato di distogliere Tirsi dal recarsi
nella “gran citade in ripa al fiume”, Ferrara; gliel’aveva
dipinta come il “magazino de le ciancie”, un luogo pericoloso,
dominato dalla maldicenza e dall’ipocrisia. Invece l’ipocrita era
Mopso stesso: Tirsi si era sentito a suo agio nel contesto cittadino;
l’aveva accolto un “huom d’aspetto magnanimo e robusto”
(Alfonso II) e il contatto con quello stimolante entourage
l’aveva indotto a cantar “guerre et herroi”. Siamo appunto nel
cantiere della Gerusalemme
liberata.
“Udimmi Mopso poscia, e con maligno / guardo mirando affascinommi,
ond’io / roco divenni e poi gran tempo tacqui, / quando i pastor
credan ch’io fossi stato / visto dal lupo e ’l lupo era costui”.
Un passaggio ch’è un enigma. Mopso esercita il potere dello
sguardo invidus.
Paralizza l’ispirazione del poeta, lo rende rauco, proprio come i
bestiari, la tradizione bucolica e quella della magia naturale
sostenevano potesse fare il lupo, se per primo avvistava la sua
vittima. L’episodio di Mopso comparve nell’edizione del 1581 (ma
era presente in manoscritti più antichi, del 1577 e del 1579), per
dare avvio a un’altalena di apparizioni e sparizioni. Chi era? Più
studiosi si sono cimentati nell’elaborare ipotesi. La più
fortunata è rimasta quella che si trattasse di Sperone Speroni,
revisore della Gerusalemme
e latore di critiche che misero in crisi Torquato. Speroni
corrispondeva anche al profilo di figura estranea alla corte
ferrarese, diversamente dall’altro candidato per l’identificazione,
Antonio Montecatini, filosofo e dal 1575 nuovo segretario ducale.
Montecatini fu proposto quale Mopso da Chiodo, che recentemente, con
Elisabetta Graziosi, ha anche avanzato l’ipotesi di Giovan Battista
Giraldi Cinzio. In realtà forse bene Gigante innestava Mopso nella
“tecnica del contrappunto” di cui ha parlato il critico Sergio
Zatti. Mopso sarebbe “controfaccia” di Tirsi e quindi dell’autore
stesso. Potremmo spingerci a credere che Mopso sia il Tasso che ama e
odia la corte, che ne è attratto e respinto. Quello che avvertirà
la necessità di introdurre una ‘rapsodia’ anticortigiana nella
Gerusalemme
al
punto d’inserire l’episodio di Erminia fra i pastori, non
necessario alla trama e di fatti eliminato nella Gerusalemme
conquistata.
Non quindi Speroni, che criticando Tasso lo costringe al silenzio, ma
quello stesso Torquato insicuro, ora euforico perché conscio del
proprio genio, ora malfidente e bisognoso delle rassicurazioni dei
revisori. Quel Tasso che scrive e lacera la Gerusalemme
e
poi, come scriverà De Sanctis, la ridurrà allo scheletro del poema
originario nella Conquistata.
Quel Tasso, insomma, che rendeva sé stesso rauco, perennemente
insoddisfatto delle sue creazioni. Se Mopso potrebbe essere
“controfaccia” di Tirsi, il Satiro rappresenterebbe il lato
oscuro di Aminta. Ispirato alla versione teocritea del ciclope
Polifemo, respinto da Silvia, crede ciò sia avvenuto perché non
abbastanza ricco. Suo è infatti il controcanto del coro dell’età
dell’oro, da lui ritenuta tale in senso letterale, perché l’unica
cosa che contava per conseguire la felicità era il possesso della
ricchezza materiale. Sentendosi escluso da quel libero godimento, il
Satiro decide di ottenerlo con la forza. Lega Silvia a un albero con
l’intento di violentarla e quando Aminta, che intendeva spiare la
ninfa al bagno, giunge, in fondo il Satiro stava dando corpo ai
desideri più reconditi e inconfessati del giovane pastore stesso.
Nemmeno l’eroico salvataggio della ninfa da parte di Aminta né fa
sgelare il cuore. Ci vorrà, in una riscrittura con happy
end dell’ovidiana
favola di Piramo e Tisbe, la notizia della falsa morte di Silvia,
sbranata da un lupo, annunciata dal personaggio della ninfa Nerina.
Torna ancora una volta il motivo del lupo, la minaccia incombente
nella poesia bucolica (si pensi alle egloghe sannazariane) e
nell’Aminta.
Credendo l’amata morta, Aminta tenterà il suicidio; appresa la
notizia, Silvia, disperata, si renderà conto di amarlo e, allora, il
gioco di specchi avrà fine. Il cono d’ombra sarà illuminato e,
scoperto che il pastore è sopravvissuto alla morte per circostanze
fortuite, l’unione tra i due cuori potrà dispiegarsi con rinnovata
serenità. Ben diversamente andrà agli shakespeariani Romeo e
Juliet.
Un
corollario interessante della favola amintea è la sua fortuna
leopardiana, che ne scrive un ulteriore tassello. Le due creature
femminili più struggenti dei Canti
sono Silvia e Nerina, la figura cantata nelle Ricordanze
e immortalata nello stupendo “ivi danzando”. Leopardi amò questa
pastorale al punto da mutuarne ambo i senhal.
Generalmente si identifica in Silvia la stessa figura femminile
cantata nel Sogno
(1820-1821)
ed entrambe sono accostate a Teresa Fattorini, morta nel settembre
1818. Nerina, invece, con molti dubbi è individuata in Maria
Belardinelli, la “tessitora” che morì (anch’ella) di tisi nel
novembre 1827. Eppure, forse non a torto Carlo Trevisani suggerisce
di rovesciare i dati e vedere in Silvia la Belardinelli e in Nerina
la Fattorini. Anche la pastorale tassiana, riteniamo, ci condurrebbe
a tali conclusioni. Nerina è nunzia della (falsa) morte di Silvia;
quindi si potrebbe pensare, per analogia con quella situazione, che
la morte di Nerina, nella realtà, sia stata preannunciatrice di
quella di Silvia. Il lettore può ben cogliere come la prima tra le
due a morire sia stata la Fattorini. Le Ricordanze
recano
con sé, in quell’immagine struggente che – come scrisse De
Sanctis – “riapparisce in fondo al sepolcro”, l’impressione
che Nerina sia morta da tempo: “caduta forse / Dal mio pensier sei
tu?”, si chiede Giacomo. Leggendo A
Silvia
si ha invece l’impressione di una scomparsa recente, per non
parlare del fatto che ci troviamo dinanzi a una ragazza che tesse
(“Silvia la tessitrice”, la definì De Sanctis) e che morì,
com’è stato rilevato, “pria che l’erbe inaridisse il verno”,
dato che appare maggiormente compatibile con una scomparsa nel mese
di novembre che con una in settembre. Queste osservazioni nulla
tolgono al fatto che, da un primum
movens materiato
di concretezza di vita, Leopardi abbia trasformato queste figure in
altro da ciò ch’erano nella realtà. Ricondurle troppo su questa
terra equivarrebbe – come ben diceva ancora De Sanctis – a un
atto profanatorio.
La
grazia dell’Aminta
si
coglie anche da questi nobili “corollari”; è un miracolo d’arte
e poesia che germina dalla melanconia di uno spirito turbato,
probabilmente anche per effetto di un eros eslege cui non voleva,
proprio come Silvia, abbandonarsi (forse quanto scriveva Solerti, a
dispetto di tutte le contestazioni scaturite, non era poi fuori
luogo). Una creatura che desiderava profondamente essere accolta e
consacrata – e per un po’ vi riuscì – nel contesto di una
delle corti più belle della penisola. Fu però un sogno di breve
durata il suo, “che non ha tregua / con gli anni humana vita, e si
dilegua”.
Grazie. Davvero un contributo prezioso.
RispondiEliminaGrazie di cuore, Gianni Antonio Palumbo
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