"סֶלָה - I Sèlah nei finali" - Poesie di Francesco Papallo tratte dalla raccolta inedita “La linfa della cenere” - con nota di lettura di Sergio Daniele Donati
È sempre un onore – e un onere – ricevere da un autore delle poesie facenti parte di una raccolta non ancora pubblicata.
E il senso di dono e responsabilità si amplifca ancora di più quando, dopo un'attenta lettura delle composizioni, ci si rende conto di essere di fronte ad una scrittura che ha richiami molto forti nell'etica della parola di chi deve commentarla.
È questo sicuramente il caso delle poesie di Francesco Papallo che oggi vi presentiamo e che sono destinate ad essere raccolte in futuro nell'opera “La linfa della cenere” .
Dicevo sopra di un certo richiamo alla mia idea di etica della parola, nella lettura di questi testi che presentano come elemento centrale, slogan per tanti che, però, a conti fatti, dimostrano l'esatto contario, la cura per la parola.
La parola di Francesco Papallo è figlia di quella cura e tenuta che per chi vi scrive qui ora , ormai lo sapete, è il centro non solo di un poesia riuscita ma del corretto posizionamento di scrive nei confronti dell'argilla quasi sacra che chiamiamo "verbo".
Quelle di Francesco Papallo sono poesie che hanno un duplice riverbero nel corpo del lettore; sfiorano l'emozionale, attraverso un percorso nel pensiero, e non si limtano a stimolare una, tanto intensa, quanto fugace, banale e distratta, bellezza del dire.
Il bello nella scrittura di Francesco Papallo si manifesta, come si diceva, nella tenuta e nalla capacità della parola di restare, come riverbero perdurante, anche a conclusione della lettura.
Altamente simboliche – ma non ancora, e per scelta, simboliste – sono a ben vedere tutte poesie che descrivono un percorso preciso che dalla parola porta al pensiero e dal pensiero all'emozione profonda della com-partecipazione, sempre silenziosa, del lettore al loro completamento.
(...)
"la mia parola va controcorrente
per immolarsi al limo del silenzio."
per immolarsi al limo del silenzio."
scrive Francesco Papallo in finale de "Verso di sè".
Si potrebbe discutere amabilmente con l'autore, e non è detto che un giorno queste pagine non ospitino una sorridente discussione sul tema, se questo andare della parola verso il silenzio sia davvero un movimento controcorrente e non semplicemente la conclusione del cerchio di vita della parola, che dal silenzio sorge e al silenzio, dopo essere stata letta, torna.
Ma questa amichevole discussione nulla toglierebbe alla centralità che al silenzio l'autore tributa nelle sua poetica.
Lo si percepisce in tutti i finali anche quando non viene citato, quasi fosse una sorta di סֶלָה (Selah) come lo troviamo ad esempio nei Salmi.
Nei passaggi più importanti in cui è richiesta una pausa di riflessione dei testi sacri, specie i Salmi, per l'appunto, viene scritto "סֶלָה - Selah", che è un termine intraducibile in sè ma che invita il lettore ad una pausa, ad un respiro di riflessione su ciò che ha appena letto. Alcuni lo traducono con "fai silenzio e ascolta...l'effetto di ciò che hai letto".
Ovviamente in origine, essendo i Salmi dei veri e prorpi canti musicati, erano un richiamo ad una pausa musicale precisa, ma resta anche ora, che quelle musiche si sono in gran parte perse, l'idea del silenzio che viene dopo la manifestazione di qualcosa di centrale.
Io ritengo che ogni finale di poesia di Francesco Papallo abbia proprio quell'andamento verso il silenzio di riflessione e che la tenuta dei versi sia il costrutto essenziale su cui tale silenzio si crea.
Quindi certo, siamo di fronte ad una poesia che dalla parola (o della parola) costruisce i silenzi.
Vi lascio con un altro finale di poesia che mi ha molto colpito e, non me ne voglia l'autore, il סֶלָה - Selah lo aggingo io, perchè dovuto, come dovuto è il silenzio di fronte a ciò che sappiamo già ci sta modificando dall'interno.
(...)
Due incendi controllati,
due fossili di cera
dopo che al Minotauro si concede
una corrida a lume di candela.
due fossili di cera
dopo che al Minotauro si concede
una corrida a lume di candela.
[ndr.: Selah]
Per la redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati
__________
ESTRATTO
***
VERSO
SÉ
A un eremo si arriva per gli indizi
dell’anima nel sogno ricorrente,
per il richiamo della pietra viva
ai secoli freddati in una cella.
Avvolti nella bruma s’indovinano
i crocicchi e scarlatti segnavia
tra le cortecce. Due scanalature
su una stele – laconiche iscrizioni
un tempo forse monito al fedele –
rammentano che il dito sulle labbra
è un segno della croce in miniatura.
E come convergendo verso il centro
di un rosone, l’autunno coi suoi raggi
m’individua: tu sei bersaglio oppure
nervo scoperto del tempo? Stupore
immobile, sostanza quasi eterea,
qui dalle feritoie della sera
divento cieco come i pipistrelli,
la mia parola va controcorrente
per immolarsi al limo del silenzio.
dell’anima nel sogno ricorrente,
per il richiamo della pietra viva
ai secoli freddati in una cella.
Avvolti nella bruma s’indovinano
i crocicchi e scarlatti segnavia
tra le cortecce. Due scanalature
su una stele – laconiche iscrizioni
un tempo forse monito al fedele –
rammentano che il dito sulle labbra
è un segno della croce in miniatura.
E come convergendo verso il centro
di un rosone, l’autunno coi suoi raggi
m’individua: tu sei bersaglio oppure
nervo scoperto del tempo? Stupore
immobile, sostanza quasi eterea,
qui dalle feritoie della sera
divento cieco come i pipistrelli,
la mia parola va controcorrente
per immolarsi al limo del silenzio.
***
PASSAGGIO DI STATO
PASSAGGIO DI STATO
Amore, dopo l’apice d’amore
siamo relitti pensili di vecchi pergolati.
Nell’abbandono prevale il miracolo.
Lo svelano il presagio, il déjà-vu,
saperi trascurati
che inaugura un brusio nella penombra.
Amore, ostaggio della tua oasi,
con la saliva aggiungiamo le virgole
ai segni cuneiformi e a queste gondole
lasciate dalle unghie sulla pelle.
L’odore di salina sulle roride
lanugini, non lo cacciamo via
con esorcismi di acqua e sapone.
siamo relitti pensili di vecchi pergolati.
Nell’abbandono prevale il miracolo.
Lo svelano il presagio, il déjà-vu,
saperi trascurati
che inaugura un brusio nella penombra.
Amore, ostaggio della tua oasi,
con la saliva aggiungiamo le virgole
ai segni cuneiformi e a queste gondole
lasciate dalle unghie sulla pelle.
L’odore di salina sulle roride
lanugini, non lo cacciamo via
con esorcismi di acqua e sapone.
Amore, dopo l’amore, gradato
o brusco avviene un passaggio di stato
dal solido al sublime. Nuda l’anima,
sciolta dai nodi evapora nell’aura
intorno al corpo, e il corpo ha lo spessore
d’ostia di una palpebra appena schiusa
all’Essere che siamo in goccioline.
o brusco avviene un passaggio di stato
dal solido al sublime. Nuda l’anima,
sciolta dai nodi evapora nell’aura
intorno al corpo, e il corpo ha lo spessore
d’ostia di una palpebra appena schiusa
all’Essere che siamo in goccioline.
***
EREDITÀ
I reduci raccontano
il gelo degli inverni e gli altoforni –
tra questi c’è da scegliere.
Temperature estreme, il peso netto
della guerra se fai la tara e ottieni
il fango nelle trincee, la brodaglia
con farina di carruba, le lame
che si spezzano nel pane raffermo,
il latte delle balie
col petto carenato dal digiuno.
Alta una meridiana di cadaveri
proietta un’ombra che fa pulizia
e gracchia come scopa di saggina
sopra un tappeto di aghi di pino.
L’ora della follia che fissa il vuoto
e non registra l’estasi e l’inciampo
quando nell’erba ti taglia la strada
il barbaro corallo dei papaveri.
***
CROCIATI
A volte ti baciavo
la fronte con la fronte: e mai per resa,
mai fu senza fibrillazione il gesto
che divinava il bene, il male in noi,
l’edulcorato finale a sorpresa.
Trasparente era pure l’ingombro
di tanto sapere, quell’empietà
che è solo delle isole gelose
di chi parte. Fummo respinti poi
e nella ritirata ecco il confine,
tutto tornava chiaro e insopportabile
come una spartizione:
“a me l’abiura, a te il ritorno in patria” –
così dividemmo la Terra Santa
quali crociati dell’adrenalina.
CROCIATI
A volte ti baciavo
la fronte con la fronte: e mai per resa,
mai fu senza fibrillazione il gesto
che divinava il bene, il male in noi,
l’edulcorato finale a sorpresa.
Trasparente era pure l’ingombro
di tanto sapere, quell’empietà
che è solo delle isole gelose
di chi parte. Fummo respinti poi
e nella ritirata ecco il confine,
tutto tornava chiaro e insopportabile
come una spartizione:
“a me l’abiura, a te il ritorno in patria” –
così dividemmo la Terra Santa
quali crociati dell’adrenalina.
***
L’HABANA
Un parossismo del colore puro
fermenta nelle cose e ne trascende
la misura. Qui la miseria è docile
randagio accarezzato dagli unguenti
della luce, ancella che cosparge
d’olio di mandorla volti gemelli
ai palazzi in rovina. Nella musica
a L’Habana si festeggia la gloria
tutta umana del fallire,
si sgola la tristezza in un agone
tragico dove solo l’impossibile
sulla realtà può avere la rivincita.
***
SOLSTIZIO D’ESTATE
Torno al paese ed è il balzo all’indietro
del rinculo, l’impatto del martello
sull’incudine in screpolate mani
di selciatori chini sulla roccia.
Flemma e torpore agglutina
la piazza principale:
sotto i balconi, soffocati in burka
di vestiti a lutto, trovano il fresco
e contano, i rimasti, chi è sparito.
A giugno il sole, sovrano assoluto,
è il primo schiavo della sua corona
se alla catena ringhia su un pantano
di girini dalle ore contate.
Garrisce il campanile diroccato,
rifugio a un carillon di balestrucci.
E se un latrato muore
nell’afa di un cortile
se in un raro frangente la cicala
si pente dell’assillo, quella tregua
echeggia goccia a goccia l’acqua santa
caduta dalle mani
nella radura di una chiesa vuota.
SOLSTIZIO D’ESTATE
Torno al paese ed è il balzo all’indietro
del rinculo, l’impatto del martello
sull’incudine in screpolate mani
di selciatori chini sulla roccia.
Flemma e torpore agglutina
la piazza principale:
sotto i balconi, soffocati in burka
di vestiti a lutto, trovano il fresco
e contano, i rimasti, chi è sparito.
A giugno il sole, sovrano assoluto,
è il primo schiavo della sua corona
se alla catena ringhia su un pantano
di girini dalle ore contate.
Garrisce il campanile diroccato,
rifugio a un carillon di balestrucci.
E se un latrato muore
nell’afa di un cortile
se in un raro frangente la cicala
si pente dell’assillo, quella tregua
echeggia goccia a goccia l’acqua santa
caduta dalle mani
nella radura di una chiesa vuota.
***
INIZIAZIONE ALLA GIOIA
Gioia, perché ti dicono sirena
ora lo so. Tu sei l’arpa dei salici
che glissano le dita senza suono.
Vieni da fiumi carsici e i tuoi seni
si incistano nel mare come vertebre
di scogli. Gioia, quando mostri fiera
i tuoi cieli di stalattiti, noi
ci fermiamo a durare per un niente
e sembra un’era in campi di maggese.
Gioia, ho perso il conto ma tu sai
quante lune per noi furono costole
incrinate dal gravare di un cuore
sopra un cuore.
Due incendi controllati,
due fossili di cera
dopo che al Minotauro si concede
una corrida a lume di candela.
ora lo so. Tu sei l’arpa dei salici
che glissano le dita senza suono.
Vieni da fiumi carsici e i tuoi seni
si incistano nel mare come vertebre
di scogli. Gioia, quando mostri fiera
i tuoi cieli di stalattiti, noi
ci fermiamo a durare per un niente
e sembra un’era in campi di maggese.
Gioia, ho perso il conto ma tu sai
quante lune per noi furono costole
incrinate dal gravare di un cuore
sopra un cuore.
Due incendi controllati,
due fossili di cera
dopo che al Minotauro si concede
una corrida a lume di candela.
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