(Redazione) - Specchi e labirinti - 32 - Passeggiando per la Crotone ebraica
Locandina dell'evento |
Bisognerebbe essere stranieri ai propri luoghi. Questo perché, se lo fossimo, li guarderemmo con più attenzione e li apprezzeremmo di più. A mio avviso la reiterata abitudine spesso offusca le reali potenzialità di ciò che ci circonda, non facendone cogliere appieno la profondità e la bellezza. L’erba del vicino è sempre più verde, si sa. È opportuno, quindi, vivere il proprio giardino come se fosse un posto mai visto prima, con tutte le sue meraviglie e le sue magie.
Si visita il mondo intero e spesso non sappiamo che stiamo camminando su secoli di storia.
A onor del vero, bisogna dire che ultimamente c’è una certa riscoperta del turismo di prossimità. Le “Giornate del FAI”, ad esempio, sono encomiabili occasioni per la riscoperta di ciò che è già profondamente nostro. Dispiace dirlo, ma questa maggiore attenzione ai propri luoghi non è stata spontanea, ma spesso mediata dalle restrizioni covid, che hanno imposto di non allontanarsi troppo dai luoghi di residenza. Abbiamo capito così che “dietro l’angolo” c’era qualcosa di bello e di nuovo e che non c’era bisogno di fare migliaia di chilometri per trovare dei luoghi degni di essere vissuti.
A Crotone, tra le varie iniziative dedicate alla riscoperta della propria città ci sono quelle patrocinate dalla Fondazione Santa Critelli. Sono degli appuntamenti con la cultura portati avanti in modo del tutto volontario e senza scopo di lucro da un gruppo di crotonesi desiderosi di riscoprire e di far riscoprire la città, non solo ai turisti, ma anche e soprattutto ai suoi abitanti. Purtroppo reiterate classifiche hanno impietosamente assegnato a questo capoluogo gli ultimi posti in classifica per quanto riguarda la qualità della vita. Una certa dose di disfattismo cittadino ha ritenuto questo non lusinghevole primato ben meritato e lo ha accettato con rassegnata fatalità, guardando ad altre zone d’Italia e del mondo come le culle della civiltà e della democrazia. Un’altra fazione, campanilista ad oltranza, ha colto l’occasione per inveire contro una certa politica dello stato italiano che avrebbe volutamente relegato ai margini questa ed altre zone del Meridione.
C’è poi un terzo gruppo di cittadini, più pacato e riflessivo che, pur riconoscendo le evidenti criticità del territorio, lavora attivamente alla valorizzazione dello stesso. Conosco personalmente appassionati membri di circoli letterari e artistici, persone impegnate nel tentativo spesso riuscito di valorizzare ciò che si ha, consentendo pertanto anche ai giovani di restare nel luogo in cui sono nati e di portare ad esso, e non al nord del mondo, le proprie energie e le proprie potenzialità.
Una di queste associazioni è, appunto, la Fondazione Santa Critelli, creata nel 2017 in memoria della defunta signora Critelli, madre di Antonio Arcuri, l’ideatore delle iniziative culturali che fanno capo all’associazione stessa.
Da alcuni anni questo gruppo di volontari organizza passeggiate domenicali alla scoperta di luoghi poco conosciuti della città di Crotone durante le quali si illustrano, prima di tutto storicamente, le peculiarità del territorio.
Ritrovo dei partecipanti |
Davanti alla cattedrale, il signor Arcuri e lo scrittore Gianluca Facente hanno cominciato a dare alcune notizie generiche sulla presenza ebraica in città. Una presenza che, grazie alla vocazione mercantile del luogo, era cospicua, fiorente e molto spesso ben integrata. A partire da documenti relativi alle tasse (che gli ebrei pagavano due volte), si evince che nel 1276 a Crotone erano un ottavo di circa 9000 abitanti, quindi più o meno 1100 persone. Un numero non da poco. A queste bisogna aggiungere, nell’ambito della provincia, altre comunità attestate a Caccuri (dove si trova un edificio un tempo adibito a sinagoga), Santa Severina, Strongoli e Petilia, più sporadiche presenze a Mesoraca. Le professioni da loro esercitate erano quella mercantile, l’immancabile usura e le scienze mediche. I documenti dicono che a Crotone gli ebrei fossero medici molto bravi e molto ricercati, anche se spesso, alla prima epidemia, venivano accusati di essere loro stessi ad averla provocata, in modo da poter guadagnare di più.
Dopo queste notizie preliminari, il gruppo si è spostato subito dietro la cattedrale, dove un tempo c’era aperta campagna e cominciava il quartiere ebraico, che si chiamava Judeca. Gli israeliti non avevano il permesso di soggiornare all’interno delle mura cittadine, ma appena fuori cominciarono a costruire delle case vicino alle quali venivano poi costruite altre abitazioni per i sopravvenuti correligionari. In questo caso non si può parlare di ghetto perché non avevano obblighi di essere in qualche modo rinchiusi ad una determinata ora e potevano liberamente circolare all’interno della città per attendere ai loro commerci e alle loro faccende. Il quartiere si estendeva in un perimetro ben delimitato dell’attuale centro storico, nelle due parrocchie di San Pietro e Santa Maria Prothospatariis.
Quest’ultima potrebbe essere stata costruita sui ruderi di una sinagoga (o nelle sue immediate vicinanze). Il quartiere ebraico corrisponde oggi alla zona tra via Media sezione Pescheria e via Giuseppe Suriano ed è proprio in questa zona che ci inoltriamo, accompagnati dalla musica di Marco Angotti, colonna sonora lieve e gradita di tutto il percorso.
Arriviamo in Piazza A niva vecchia, dove un tempo arrivavano carri con neve e ghiaccio dalle montagne silane. Questa neve veniva conservata in delle cisterne sotterranee sotto la piazza e subito il mio pensiero, vista la vicinanza di un edificio in cui è attestata una sinagoga, è a un ipotetico luogo in cui sarebbe potuto essere il mikvé (bagno rituale ebraico). Quest’idea ce l’ho in testa da tempo, ma non posso provarla, ovviamente.
Entriamo nell’edificio in cui c’era la sinagoga, che ora è una casa privata. Purtroppo niente ci ricorda il passato, niente. Ci accoglie l’attuale proprietario, Franco Ferraresi, insieme a sua moglie. Sono una coppia di mezz’età, abbellita da lievi sorrisi. Il signor Ferraresi mi regala un sasso di fiume, di quelli belli e levigati, decorato da lui stesso. Mi si ferma il cuore dall’emozione. Lui non sa, non può saperlo, il significato simbolico del sasso, per l’ebraismo, non sa che sulle tombe non si mettono fiori, ma sassi, perché rappresentano la continuità spirituale della famiglia, di padre in figlio, da una generazione all’altra, da Adamo a noi. Sergio Daniele Donati mi ha ricordato che la parola “sasso” in ebraico, non a caso si dice even perché questo termine è, appunto, l’unione di padre (av) e figlio (ben). Mi piace pensare che in questo dono di chi abita dove un tempo ci fu una sinagoga non sia un caso, ma un preciso messaggio di chi ci ha preceduti e vuole ancora, con dolcezza, farci sentire la sua costante presenza.
Il sasso dipinto da Franco Ferraresi |
Fuori dalla casa, altre radici: il poeta Salvatore Picari, che declama poesie in dialetto crotonese, quello antico, quello che un pochino si è perso, travolto e imbastardito dalla lingua italiana; lo scrittore Gianluca Facente che parla del suo ultimo libro, scritto con Sandra Giglio, La madre del Turco, in cui la madre di un bimbo rapito dai Saraceni se lo ritrova davanti, adulto, ponendole la difficile scelta fra l’amore materno e la fedeltà al cristianesimo.
Chiunque conosca la storia vera del pirata Uccialì sa quale fu il finale di questa lotta interiore. Facente la rievoca con passione, davanti a quella che è stata una sinagoga, tra palazzi antichi, in una domenica autunnale, ma ancora calda di sole, come usa al Sud.
Dopo questa tappa, si continua ancora verso Santa Veneranda. Qui, in un edificio che attualmente ospita degli artigiani, c’era un’altra sinagoga. Anche qui, l’aria dimessa del luogo non fa trapelare niente di spirituale. Del resto, le sinagoghe erano case private, che bisognava avere cura di non ingrandire troppo. Meglio mantenere un profilo basso, meglio ancora essere invisibili, nella speranza di poter occupare almeno un angolo della vita degli altri.
La terza sinagoga, come si è detto, era nelle vicinanze dell’attuale chiesa di Santa Maria Prothospatariis (o forse, come spesso è successo in passato, è stata distrutta per edificarci sopra la chiesa stessa).
Tutto questo sparì, un giorno, perché l’Ebreo Errante non è solo un personaggio letterario, ma l’esatta fotografia di un popolo che ha spesso dovuto lasciare tutto e partire per l’ignoto, ricominciando daccapo, in luoghi sempre diversi e precari. Questo successe anche nel 1510, per la precisione il 23 novembre, quando un re spagnolo più fondamentalista di altri emise un editto di espulsione. Ci fu chi diventò cristiano, chissà con quale convinzione. Ci fu chi raccolse ciò che aveva, andandosene. A Crotone alcuni riuscirono a vendere le proprie case perché, strano a dirsi, in una regione in cui anche adesso imperversa la speculazione edilizia, avevano avuto cura di accatastarle.
Qualcuno rimase, però, come attesta Vincenzo Vilella alla pagina 161 di Giudecche di Calabria. Breve storia degli ebrei in terra calabra dall’accoglienza all’espulsione (Editoriale Progetto Cultura, Cosenza 2014), riportando parola per parola dei documenti ecclesiastici:
«A Crotone dal 15 agosto 1691 al 15 agosto 1691 furono fatti cristiani 22 ebrei ai quali, come da ordine del vescovo Marco Rama, furono dati ad ognuno 5 grana a testa dal procuratore del capitolo della cattedrale; nel 1704-1705 il procuratore del capitolo spese 40 grani per l’elemosine dell’ebrei ed ancora nel 1730-1731 furono pagati 10 grana a testa a due ebrei che si erano convertiti.»
Dopo, nei documenti ufficiali non si legge più niente. Ma ancora oggi, a Crotone, ci sono dei cognomi, come Giuda o Elia, che parlano chiaro, ma solo per chi sa ascoltare.
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