(Redazione) - Dissolvenze - 38 - È un bel mistero
Ho visto un quadro che non esiste. Provate a cercarlo e non lo troverete. Né nel mondo virtuale, né nel mondo reale (sempre ammesso che di mondi ne esistano ancora due).
Ma ecco che, invece, come vedrete, c’è. Ed è vero. Non si tratta, oltretutto, di un oggetto acheropita o anonimo. Almeno sulla paternità dell’opera è stata fatta chiarezza.
Resta
ignoto dove si trovi e chi ne sia l’attuale proprietario, perché
non se ne ha traccia da quasi cent’anni. Forse un giorno il dipinto
salterà fuori dal caveau dove ad oggi il suo ignoto possessore- o,
plausibilmente, i suoi eredi – lo custodiscono. Sempre che, in
questo momento, non si stia corrompendo irrimediabilmente in una
soffitta piena di topolini, o forse nel deposito di un robivecchi.
Potrebbe essere che, sotto Natale, compaia sul banco di un rigattiere
in qualche nevoso mercatino di anticaglie, accanto a vasellame di
varia provenienza e alle solite insolite curiosità da wunderkammer.
Nemmeno possiamo escludere che sia appeso alla parete di un museo,
magari con una didascalia con su scritto (e in chissà quale
lingua): “autore sconosciuto”. Potete forse esser certi che
qualcuno di noi – io che scrivo e voi che leggete – nel corso
della sua vita e dei suoi viaggi, incluse le immancabili visite
museali, non sia incappato, senza saperlo e poterlo ora ricordare,
davanti a questo soggetto? Si va sempre così di fretta davanti alle
opere meno appariscenti…
Certo
è che, il 31 luglio dell’anno 1939, questo dipinto, indicato come
lotto nr. 181 e denominato “Allegoria della vita e della morte”
(titolo che scopriremo essere fuorviante), veniva battuto all’asta
da Christie’s come opera di un certo Abraham Bosschaert, pittore
olandese del Seicento, salvo, in seguito, essere comunemente e
definitivamente attribuito a Marteen de Vos, noto maestro fiammingo
nato nel 1532 ad Anversa e ivi morto, 71 anni dopo.
Marteen
de Vos al quale, anche se dell’esemplare aggiudicatosi per una
cifra non rintracciabile dall’ ignoto vincitore dell’asta di quel
31 luglio 1939 non fu l’effettivo autore materiale, è ormai
indiscutibilmente attribuita la paternità dell’ideazione del
soggetto del dipinto, che, come vedremo, suscita non pochi
interrogativi.
Purtroppo
il destino ha confuso ulteriormente le carte, decidendo di sottrarci
anche la fotografia originale del dipinto, andata smarrita. L’unica
immagine che risulti ad oggi reperibile è la riproduzione in bianco
e nero che compare in un testo di grande importanza critica, del
quale ho il privilegio di possedere una copia e che si rifà, a sua
volta, alla fotografia stampata a Bruxelles nella Miscellanea
Leo van Puyvelde nel 1949.
Intanto,
ecco l’unica fotografia del quadro, o meglio, l’unica
riproduzione dell’unica fotografia (smarrita):
Ma
chi era Marteen de Vos?
Come
molti altri grandi pittori fiamminghi, ma non solo, anche Marteen de
Vos, giunse in Italia dall’Olanda per completare debitamente i suoi
studi d’arte. Era il 1552 e de Vos, ventenne, dopo aver trascorso
un primo periodo a Roma, proseguì poi alla volta
dell’imprescindibile Firenze, per giungere infine a Venezia, nello
studio del Tintoretto. Durante questo tour di apprendimento, lasciò
sul suolo italico tracce tuttora apprezzabili, tra cui la
“Concezione” nella Chiesa di San Francesco a Ripa, dipinta nel
1555. Diverse altre pregiate opere sono conservate nei nostri musei.
Rientrato
in terra fiamminga, fino al 1579 si dedicò prevalentemente alla
realizzazione di mirabili pale d’altare in stile elegantemente
manierista, divenendo, alla morte del suo maestro Frans Floris (noto
anche come Frans de Vriendt), il massimo artista della capitale.
È
un periodo, in tutt’Europa, di forti turbolenze, rivolte, scissioni
e veri e propri massacri legati alle grandi guerre di religione, che
tra gli altri effetti, con la salita al potere dei Calvinisti ad
Anversa, ridussero la richiesta di opere d’arte a soggetto
religioso. Ma non solo. La ben nota furia iconoclasta calvinista
(Beeldenstorm,
cioè "tempesta delle immagini”), manifestatasi in
primis a Steenvoorde, nella Fiandra francese, fu il primissimo passo
da cui poi ebbe origine la guerra degli Ottant’anni, in cui si
fronteggiarono Spagna e Paesi Bassi, fino al sorgere della
Repubblica delle Sette Province Unite (anche detta Repubblica
Olandese), che coinciderà poi con il Gouden
eeuw, il secolo d’oro,
durante il quale gli Olandesi primeggiarono in tutt’Europa sia
nelle arti che nel commercio, così come in ambito scientifico.
Ebbene,
la seconda fase della Beeldenstorm,
che durò dal 20 agosto al 27 agosto 1566, ebbe luogo nella zona
intorno al fiume Schelda, muovendo proprio da Anversa per poi
diffondersi alle altre città, soprattutto quelle sorte nelle grandi
aree fluviali, devastando e distruggendo senza pietà chiese e
monasteri. Ancora oggi è possibile cogliere la violenza del flagello
iconoclasta nei volti sfregiati di diverse opere religiose, tra cui
il noto bassorilievo di una cappella del Duomo di Utrecht.
La
prima vita di Marteen de Vos era quindi finita. Ma, spes
altera vita, come si
diceva ai suoi tempi, riuscì a trovare una sua resurrezione
artistica declinandosi su altri temi e generi, quali il disegno per
editori di stampa e i soggetti allegorici.
Ebbene,
la così denominata “Allegoria della vita e della morte”, questo
il titolo del dipinto di cui ci stiamo occupando, è proprio uno di
questi soggetti.
Ora, se vi vorrete togliere lo sfizio di cercare il dipinto in rete, qualcosa troverete, ma non lui. Quello che rintraccerete, in ogni caso, è un oggetto importantissimo, trattandosi dell’immagine di un’incisione a bulino realizzata nel 1590 circa, fedelissima al dipinto stesso, anzi, arricchita con alcuni fondamentali particolari, tra i quali l’attribuzione a Marteen de Vos dell’originale da cui deriva. L’incisione è un lavoro di Raphael Sadeler, editore e commerciante di stampe concittadino di de Vos, nato una trentina d’anni dopo di lui.
Ecco l’incisione:
Vita quid est nisi bulla levis? nisi transitus aurae?
Quae velut umbra fugit, quae velut herba perit.
Mors simul ex ortu procedit, et exitus idem
Excipit introitum. Spes pia sola beat.
Nam nisi componat sua gramina fossor in agrum,
Non redit ad dominum messis opima suum.
Sic nisi credideris morientia membra sepulchro,
Nulla resurgentis gloria carnis erit
Se lo zappatore dimentica di interrare il seme,
finisce per essere scarso il raccolto del padrone.
In identico modo le membra mortali, non affidate al sepolcro,
non godranno la gloria della resurrezione.
Come
si può ben vedere, grazie all’incisione vengono alla luce i
ricchissimi dettagli del soggetto. L’incisione differisce dal
dipinto originale, come suddetto, nell’arricchirsi di motti e versi
che da un lato illuminano l’indagine sul significato reale
dell’opera, ma dall’altro, apriranno un nuovo enigma.
Figlio
di un apprezzato damaschinista, l’incisore Raphael Sadeler finì
per stabilirsi col fratello a Venezia intorno alla metà del 1500 e
qui aprì un laboratorio di stampa. Tra le incisioni che riproducono
importanti opere di autori, quali Tintoretto, Tiziano, Jacopo
Bassano, nel laboratorio dei fratelli Sadeler si lavorarono anche
opere derivate da stimati autori stranieri, tra i quali spiccano
quelle dei dipinti eremitici di Marteen de Vos, raccolti sotto il
nome di Oraculum
Anachoreticum. Si
tratta di un’opera mirabile in 26 “rami”
dedicata a Papa Clemente VIII, la cui dispensa, tra l’altro, ne
permise la produzione e al quale i fratelli Sadeler la presentarono
in occasione della visita a Roma per il Giubileo dell’anno 1600.
Ma
del de Vos i fratelli Sadeler incisero anche, come suddetto, l’
“Allegoria della vita e della morte”, il cui dipinto originale
sembra scomparso nel nulla.
Oltre
al mistero della sua attuale collocazione, l’opera racchiude altri
segreti, questa volta fortunatamente svelati, almeno in parte, grazie
all’appassionata analisi che gli dedica Rudolf Wittkower nel suo
eccellente testo di studi iconologici “Allegoria e migrazione dei
simboli”, il libro dove compare la fotografia del quadro. [1]
Ad
una prima analisi di superficie, il dipinto di De Vos, ricchissimo di
dettagli simbolici, risulterebbe rispondente al suo titolo, in
coerenza con i consueti paradigmi del memento
mori propri della
pittura tardo-manieristica.
Iniziamo
allora dall’analisi degli elementi convenzionali che si
rintracciano nell’opera e che, volendone fare una breve
elencazione, sono:
- Il putto morto, adagiato sul teschio, un memento mori di forte impatto emozionale, considerando l’associazione morte-infanzia. È una figura comparsa per la prima volta già nel 1458, in una medaglia umanistica di Giovanni Boldù e, all’epoca del De Vos quindi ormai facilmente riconoscibile nella sua simbologia. Il putto morto con il teschio richiama immagini di connotazione cristiana, evocando opere coeve in cui Gesù bambino appare in grembo alla Vergine in uno stato di torpore quasi mortifero, anticipando con tale atteggiamento l’icona della Pietà, ove il Cristo tra le braccia della Madre è adulto e cadavere.
- I vasi di fiori appassiti, anch’essi simbolo di fuggevolezza e vanità.
- La clessidra (collocata dietro il putto morto), altro simbolo della caducità della vita
- Il putto vitale, quello sulla destra, in posizione speculare rispetto al bimbo morto. Il putto vitale è in atteggiamento gaio e sta giocando, facendo una bolla di sapone. È una sorprendente rappresentazione grafica della transitorietà della vita, della sua fragilità, della fuggevolezza del tempo e quindi rappresenta la vanità, racchiusa nell’antico adagio “homo bulla”, la cui origine risale a Varrone e a Luciano e che, in forma di motto, ricompare nella simbologia rinascimentale. Inconsueta, invece, in forma raffigurata, questa idea dell’uomo come bolla effimera.
- I vasi di fiori appassiti, anch’essi simbolo di fuggevolezza e vanità.
Ma
veniamo ora agli elementi insoliti, che saranno in grado di farci
concludere che il titolo con cui l’opera venne battuta all’asta,
“Allegoria della vita e della morte”, dovrebbe subire un piccolo
ma molto significativo “ritocco”:
- Il teschio su cui è adagiato il putto morto: il cranio poggia a sua volta su qualcosa, precisamente su un mazzo di spighe di grano. Come argutamente rileva Wittkower, il riferimento è ad un passo del Vangelo di San Giovanni (12.24): “In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano, caduto nella terra, non è morto, esso rimane solo; se invece è morto, porta molto frutto”, riecheggiato, poi, dalla prima lettera ai Corinzi, ove San Paolo osserva: “Ma qualcuno domanderà: Come resuscitano i morti? Con qual corpo ritorneranno? Stolto! Quello che semini non viene vivificato, se prima non muore”.
- Siamo davanti ad un simbolo speciale, dove il grano rappresenta l’uomo che, per resuscitare, deve prima morire e, cadavere, per poi rinascere, deve prima essere seppellito. Il grano è quindi simbolo della resurrezione dell’uomo, simbolo che, come tale, compare solo con l’avvento della Controriforma.
- Ciò chiarito, risulta allora molto bizzarra la dislocazione che nel quadro Marteen de Vos dà agli elementi putto-teschio-grano, nel senso che collocare il teschio sopra il grano è un sostanziale rovesciamento semantico della simbologia.
- L’agricoltore che, sullo sfondo, dietro al putto morto, miete il grano maturo: è un elemento che collabora alla corretta interpretazione dell’allegoria come simbolo di rinascita
- La raffigurazione della resurrezione di Cristo, al di sopra del putto morto con teschio sul grano: questo dettaglio sgombera il campo da qualsiasi residuo di dubbio interpretativo sul senso dell’opera
- Il melograno, collocato dietro il putto con la bolla di sapone, melograno che lì si trova proprio a rappresentare la benevolenza di Cristo all’ombra della quale può espandersi gioiosamente la vita, e cioè quella bolla di sapone in cui il putto sta soffiando il suo respiro vitale.
Ecco che quindi il dipinto “Allegoria della vita e della morte”, debitamente osservato, avrebbe meritato un titolo decisamente differente: “Allegoria della morte e della resurrezione”.
Questa
interpretazione è confortata dal prezioso distico in latino che
compare poi nell’incisione di Sadeler e che recita:
Vita quid est nisi bulla levis? nisi transitus aurae?
Quae velut umbra fugit, quae velut herba perit.
Mors simul ex ortu procedit, et exitus idem
Excipit introitum. Spes pia sola beat.
Nam nisi componat sua gramina fossor in agrum,
Non redit ad dominum messis opima suum.
Sic nisi credideris morientia membra sepulchro,
Nulla resurgentis gloria carnis erit
È forse la vita altro che una bolla leggera o un soffio
di vento?
Come un'ombra scompare, come un'erba perisce.
La
Morte ci accompagna sin dalla nascita, la fine tiene
subito dietro all'inizio. Solo la cara speranza ricrea. Se lo zappatore dimentica di interrare il seme,
finisce per essere scarso il raccolto del padrone.
In identico modo le membra mortali, non affidate al sepolcro,
non godranno la gloria della resurrezione.
Dal
monito grave del memento
mori, si passa allora
ad una prospettiva di speranza e nuova vita, quella che,
necessariamente, deve germinare dalla morte.
Ma,
qui giunti, pacificati dalla luce fatta sul senso dell’opera, si
pone invece un’altra e nuova questione: chi è l’autore di questi
versi latini presenti sull’incisione?
Il suo nome non compare,
nessun riferimento. Wittkower fa le sue autorevoli ipotesi, certo, e
plausibilissime. Si tratterebbe di Willem van Est, cancelliere
dell’università di Douai e autore di numerosi testi latini per le
incisioni del Goltzius.
Per
averne assoluta certezza, bisognerebbe indagare ancora.
Per
esempio, controllare bene l’incisione, forse il retro.
Pensare
che era in vendita, l’incisione, fino a ieri. Ero tentata
dall’acquistarla per scrutare nei suoi dettagli, da vicino. Era
anche proposta ad una cifra sensata, se solo pensiamo che, in fondo,
è l’unico documento che prova l’esistenza del dipinto,
permettendoci oltretutto di attribuirgli una corretta paternità in
Marteen de Vos e di analizzarlo nei particolari.
Ma
il destino è imperscrutabile e dispettoso: stamattina, quando sono
tornata sul web per rivedere l’incisione, ho visto che qualcuno,
nottetempo, l’aveva acquistata.
Possibile,
proprio adesso?
Non
chiedetemi di chi si tratti, perché davvero non lo so.
È
un bel mistero.
_____
NOTA
[1] - Rudolf
Wittkower, “Allegoria e migrazione dei simboli”, Einaudi, 1987.
Traduzione di Marcello Ciccuto
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