(Redazione) - La Natura e la Tecnica in “ Ἐλέα” di Bruno Di Pietro - Nota di Lettura di Mimmo Grasso
Mimmo Grasso |
Chi siano e cosa rappresentino Mimmo Grasso e Bruno Di Pietro nel panorama poetico contemporaneo è cosa che non dovrebbe nemmeno essere oggetto di commento.
Per Le parole di Fedro è però un piacere profondo, e un onore, ospitare le parole di un poeta della profondità di Mimmo Grasso sulla recente uscita per i tipi di Les Flâneurs Edizioni della raccolta di Di Pietro Ἐλέα, perchè si è ben oltre la semplice recensione e nota a margine di una splendida scrittura.
Qui si manifesta tutta la profondità che può esprimere l'incontro tra voci poetiche e critiche eccezionali.
Per la redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati
__________
1. Gianfranco Contini, riferendosi al suo rapporto con Montale, scrisse “Una lunga fedeltà”.
Non è infrequente che autori, anche di discipline lontane tra loro, entrino in sintonia condividendo, con metodi e sensibilità diverse, lo stesso percorso. Bruno Di Pietro è rimasto fedele a “Il pensiero meridiano” di Franco Cassano, sul cui tracciato ha incontrato altri viandanti, personaggi celebri oppure dimenticati e dal poeta riconsegnati alla storia.
Questi
personaggi si narrano sullo sfondo di un tempo ciclico come gli
eventi umani e di una physis
che in Di Pietro è totalmente greca in quanto percepita come
immutabile (“basta
a sé stessa la natura” “la natura non vuole essere detta” ),
in sintonia col saper-sentire eleatico anche se, sornione, il poeta
spia Parmenide e lo sorprende convertito al divenire eracliteo.
Convertito: non una questione di logica ma di fede. Con preveggenza
il filosofo si avvia verso “la Porta” di un Nulla presentito ma
non ammesso da una logica poetante che, tenace, ha dato inizio
all’ontomachìa.
2.
In
questa Elea
Parmenide è incerto ma deciso, cerca di intercettare il senso
dell’essere con i sensi, come un rabdomante in
compagnia degli smarriti che annusano la terra in cerca di nuove
sorgenti, fra
le quali un nuovo linguaggio, quello tra Dike
e
Doxa.
Fu ai poeti che si rivolse Heidegger per scoprire nuovi sistemi della
conoscenza.
Ascoltiamo
un aforisma:” nella
piana di Elea tutto è e sarà come sempre è stato (io
in
invecchio)”,
vale a dire che il divenire, il mutamento, riguarda il soggetto che
osserva, che si percepisce come già e non ancora mortale. Se
parliamo di divenire e movimento parliamo di tempo. Il tempo in Di
Pietro è avvertito (vedi Masullo) come un mutamento dello stato di
coscienza.
Elea
è
strutturata in sezioni ed affronta temi originari, fondativi perché
ci mostrano, plausibilmente, l’elaborazione del nucleo di quello
che sarà (fu) uno dei primi sistemi di pensiero occidentale,
l’“indomito cuore incentrato” il cui simbolo è, qui, notturno,
sublunare: “danzano
l’uno e i molti intorno alla rotonda luna” ed
è una luna
“noumenica” e
“daimonica”
in quanto tende al nascondimento (ancora Eraclito: kryptestài
filèi),
non illumina ma assorbe lo spettro semantico del mondo, è un
riflesso, non brilla di luce propria e, pertanto, è ingannevole.
3.
L’Essere
di Di Pietro, sulla scia di Senofane, Parmenide e della
fenomenologia, è praesens,
l’esser-davanti, il Dasein,
l’esser-lì,
l’ad-esse
indagato
da Kant fino ad oggi e tradotto in italiano con Esser-ci
in relazione specificamente all’uomo, che è nel mondo, ente tra i
tanti, e nel contempo apre mondi, è un marcatore di significati.
Che
significa “Esser-ci”? In termini semplici, le cose, gli enti, ci
sono; il
loro fondamento è, appunto, l’esser-qui
in
“presenza del presentire”
umano.
Se siano reali o meno, se appartengano alla fenomenologia della
percezione, se contaminati dai rapporti sociali e dalla storia, è un
capitolo che il pensiero svilupperà successivamente. Il mondo
inconfutabilmente hice
(tardo latino) -hic
esse:
“esser qui”. Gli enti sono ma sono (appaiono) modulati secondo il
giorno e la notte (“avanza
il popolo dei sogni con la notte che domina gli uomini e gli dei”),
secondo la veglia e il sonno, secondo il giusto pensare e l’opinione:
una congerie che dà inizio a un poema di cui ci restano poche righe
ma sufficienti per comprendere la grandezza dell’autore, forse più
poetica che filosofica.
4.
La
notturna Elea
di Di Pietro ha origine da un memento
posto in esergo e da un raptus,
un impulso che nasce dal “desiderio di”, dunque da una mancanza.
I suoi mondi si dispiegano, in modo quasi magico, nell’hic
esse
e qui scompaiono mentre appaiono. È questo il fenomeno che il poeta
cerca di comprendere vivendo in una diffusa Lichtung
(radura:
il fare poetico) che illumina la presenza e la cui luce consiste nel
suo stesso “diradarsi”, nel bianco che separa ed unisce i versi,
e, quindi, nel suo “venir meno”: “Mi
accompagna verso la scogliera un’ombra invisibile. Annuncia una
luce nascosta…Sembra venga dal cielo l’acqua sorgente dalla fonte
della ninfa Yele.
Ai
suoi piedi lussureggia il trifoglio”
ma ciò per appena un attimo, un frammento, in quanto il
lussureggiare è nella volontà di Astreo, il dio del chiaroscuro, ed
è destinato al “non esserci più” o, in modo enigmatico, “al
non esserci, più”.
Il
poeta, come in altre raccolte, si pone in sintonia con il paesaggio
visto come ritratto della mente, va pellegrino in luoghi cilentani e
simbolici come Policastro, i santuari di Viggiano o del Gelbison, si
ferma a raccogliere i frutti - quelli spontanei - della terra,
snocciola olive con Zenone per una pausa nel dilemma se le leggi
della natura siano quelle del pensiero; li vediamo entrambi protetti
dalle loro ombre mentre una grande tragedia stende i suoi nembi
perché tutto
ciò che, nel mondo fisico, nasce cresce divora si riproduce e muore
appartiene al vivente, anche agli alberi o all’erba.
5.
La
natura divora sé stessa: in questo momento, in un angolo di questa
stanza, un ragno starà divorando un altro insetto e nel globo i
viventi stanno, proprio adesso, distruggendo altri viventi.
Fra
essi, l’uomo è il Nullificatore e, nel contempo, l’unico a poter
evadere dallo stato di natura e necessità per passare a quello di
cultura, a fatica e dialetticamente, ricorrendo a quel formidabile
strumento cognitivo che sono i sentimenti (se-intus-ire),
l’empatia o, in oriente, la compassione buddista che accoglie
anche la distruzione: ”nei
pressi del pozzo sacro di Elea resto testimone del non essere
“.
La parola “sacro” compare solo una volta e non riguarda vette o
monti o santuari ma un pozzo, sacro
perché
il sacro è il separato, che ci costituisce e che bisogna evitare, il
terribile
dal quale ci si difende e che, paradossalmente, produce la gioia
dell’abbandono al nulla: “la
gioia di essere nel mondo, la gioia di essere senza fondo”, vale
a dire senza - finalmente - fondamento.
Eppure,
per il poeta questi
due momenti (vita-distruzione) non implicano che si sia “gettati”
nel mondo ma che se ne sia cullati. L’idea di culla conduce a ciò
che è notturno, al sonno, al sogno, a quel fenomeno dove non vale il
principio di non contraddizione, dove lo spazio e il tempo si
intrecciano in modo equivoco, dove l’essere perde gli attributi
faticosamente intercettati (ingenerato, indistruttibile, immobile,
sferico…). Non è per caso che il poema di Parmenide inizia con un
sogno, che cerca la sua “via” scendendo nell’Ade, nel mondo
infero, dove le cose appaiono indifferenziate.
In
merito, oserei dire che i testi di Elea
nascono da una trance
autoindotta
o da un’ipnosi regressiva, l’andare indietro sonnambolico o
visionario fino alle pietre d’acqua dell’istinto-pensiero, ai
materiali non ancora squadrati della costruzione logica, poi
perfezionati da Platone.
6.
In
questo preziosa raccolta l’autore ricorre alcune volte alla
metafora del cieco che, per paradosso, riesce a vedere l’essere
e l’essenza nel tutt’uno del ramo spezzato del pioppo immerso
nell’acqua.
In
Elea
il “tutt’uno” (Plotino), col noto riferimento al bastone che
“appare” spezzato nell’acqua, è generato dalla rifrazione
verità-errore, realtà-opinione, da una luna che non mostra l’altra
faccia, tra nottole con occhi luminescenti e cicale che friniscono
come stelle, fino alla cecità, il non voler vedere più, dove non
c’è rifrazione e si possono solo utilizzare i sensi e il ricordo
e, se, per conoscere si utilizza il ricordo, gli enti del poeta già
non appartengono più ad alcuna radura, a nessuna luce logica.
Rimane
la speranza che le cose esistano, al di là della Porta Rosa, quando,
divenuti ciò che si deve divenire, “la
stessa cosa sono l’essere e il respiro”.
La
sede primaria del sentire e del percepire per un greco erano i
polmoni in quanto elementi che riscaldano; in tal caso l’energia
vitale era thumos
(en-tus-iasmo);
l’elemento freddo era la psychè.
La poesia di Di Pietro è, dunque, precisamente il mantice
dell’esistere.Il cui correlato, il nulla, si declina in altri
paradossi. Certo: Parmenide si chiedeva “come posso io pensare il
nulla se ho dichiarato che solo l’essere è pensabile?”. Lo
posso, appunto, pensare e, dunque, devo ampliare la sua “sfera”
(Tononi, Un
viaggio dal cervello all’anima, 2014);
il nulla è un blak-box,
una stasi della percezione (non verbalizzazione e non
immaginazione), che consente di creare nuovi legamenti e
rimodulazioni tra cose e nome, di vedere più “dentro”.
7.
Il
poeta si muove fisicamente tra fughe ed andirivieni, di solito
dall’alto verso il basso, da vette a valli e pianori fino ai pozzi,
prigioniero di una scissione ontologica, quasi voglia liberarsi da
una tagliola, quella che Cassano chiama “Dal mare degli enti alla
terraferma dell’essere”, ricordando l’episodio per cui i trenta
tiranni decisero di voltare verso la terraferma le statue del Pireo
come a dire: “basta mare, torniamo alla solidità e inconfutabilità
della terra, basta democrazia”. È
fra queste statue che il poeta si aggira ma sempre su un litorale,
accanto al mare o di fronte a un orizzonte dove la parola scompare-è
scomparsa e, con essa, la cosa che nomina e, nominandola, la fa
esistere. Agli attributi parmenidei dell’essere Di Pietro ne
aggiunge un altro: silenzioso. Sconfitto, cambia pelle e ora è un
tecnocrate che studia come bonificare una palude dalle zanzare, ora
un Esiodo che scende da un monte seguito da capre. Queste capre
rinviano molto evidentemente a Dioniso, anch’egli sublunare. Nel
leggere i versi in questione l’ho intravisto come un tammurraro.
8.
Dicevamo
che Elea,
come le rondini notturne e in ritardo del poeta, è originaria.
Andiamo dunque un po’ più a fondo sulla questione “natura”.
“Natura” è “ciò che sta per venire alla presenza”. Per il
pensiero greco vivere con la coscienza della morte sullo sfondo della
natura impassibile, è un elemento altamente tragico affrontato con
compostezza. il mondo greco non aveva cognizione dell’idea
cristiana-agostiniana di “anima” introdotta, come psychè,
da Platone e fatta propria dal cristianesimo. Ricordiamo l’incontro
di San Paolo nell’areopago
con
gli anziani di Stene. Quando Paolo dichiarò l’esistenza dell’anima
e della vita dopo la morte (ciò significa saltare a piè pari la
questione del nulla) gli fu risposto, con sufficienza: “Parliamone
in un’altra occasione”. Col prevalere dell’impostazione
giudaico-cristiana, dalla patristica in poi la natura è vissuta in
modo diverso: ha uno scopo, un fine, un èscaton
e all’uomo – è lui il creato
più ricco del creatore
e lo è perché non è solo il bene ma anche il male - è
consentito usarla fino al totale dominio della tecnica, fino a fare
in modo che il 20% della popolazione ha bisogno delle risorse
dell’80% del pianeta. Ma non c’è alternativa: 8,5 miliardi di
persone hanno bisogno della tecnica per mangiare, bere, curarsi,
coltivare, viaggiare, comunicare. La salvezza dell’occidente, ormai
in piena notte (Galimberti) sarebbe nel rimodulare il binomio
capitale-tecnica, nato a metà Ottocento con la rivoluzione
industriale generando lo sconvolgimento dei rapporti sociali e di un
modo d’essere nella natura e per la natura. Un mondo senza tecnica
è utopia ma uno senza capitale, cioè con fini e pratiche etiche, è
ancora possibile.
Ed
eccolo qui il discendente eleatico aggirarsi con la sua “sfera”
di vetro nelle città contemporanee, digitali e liquide,
tecnologiche, pluriverse ma unisenso. È
questo un
invito che rivolgiamo a un poeta in cui è
forte il bisogno di rimodulare l’intero senso dell’umano.
9.
In
aforismi fulminanti il poeta dichiara, “il
passato deve ancora venire”.
È
per intercettare questo passato che il protagonista del libro si
ferma varie volte di fronte all’orizzonte con la speranza di vedere
gli antenati sbarcare e consegnare messaggi, storie, rotte da
ripercorrere, valori, modi di vivere che ci consentano di obliterare
il nichilismo dell’occidente, ritrovando la “gioia di essere nel
mondo”, cioè, secondo il tipo di lettura proposto, l’esser-qui
senza - amen- fondamento. Senonché l’uomo contemporaneo vive una
tragedia ancora più intensa di quella di un greco antico. Questi
immaginava il dio latente, nascosto all’interno della natura;
questo dio rimane sorpreso dalle capacità tecniche dell’umano
(p.es. il coro dell’Antigone); noi abbiamo posto il divino fuori
dalla natura per poi reinserirlo, grazie a Spinoza ed Hegel, nella
storia come processo di autocoscienza del dio stesso.
E
oggi? Di Pietro vuole ritornare ai padri e, se i padri ritardano lo
sbarco per rifondare una nuova colonia dell’Essere, è lui a
muoversi verso di loro: è lui i suoi antenati perché “anche tu
sei nel gioco/anche tu porti pietre/rubate alle rovine/ verso i muri
dell’edifico” (Luzi).
Anni
addietro, in un saggio su questo poeta, notammo che le sue compositio
e dispositio
obbediscono a una tecnica permutativa basata sullo stile del
frammento che consente di moltiplicare i testi.
Più che
frammentario, tuttavia, parlerei di uno stile reticolare, a
tramaglio.
Ne diamo un esempio usando alcuni dei versi citati:
Basta
a sé stessa la natura,
la
stessa cosa sono l’Essere e il respiro.
La
natura non ama essere detta
C’è
più mistero nel creato che nel creatore.
Avanza
il popolo dei sogni con la notte che domina gli uomini e gli Dei,
sarà
un’anagrafe degli smarriti che annusano la terra in cerca di nuove
sorgenti
nei
pressi del pozzo sacro resto testimone del non essere.
Sembra
venga dal cielo l’acqua sorgente dalla fonte della ninfa Yele.
Ai
suoi piedi lussureggia il trifoglio.
Così
nel viandare disadorno della mia vecchiezza provo ad illudermi
che
ci sia un ritorno, al di là della porta rosa.
Le
pietre di Elea si saranno accorte che me ne sono andato?
Mimmo
Grasso
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NOTIZIE BIOBIBLIOGRAFICHE
BRUNO DI PIETRO (1954) vive e lavora a Napoli esercitando la professione forense.
Ha
pubblicato le raccolte poetiche: “Colpa
del mare” ( Oédipus,
Salerno-Milano 2002)“[SMS]
e una quartina scostumata” (d’If,Napoli
2002)“Futuri
lillà” (d’If,
Napoli,2003)“Acque/dotti.
Frammenti di Massimiano” (Bibliopolis,Napoli
2007) “Della
stessa sostanza del figlio” (Evaluna,Napoli
2008) “Il
fiore del Danubio” (Evaluna,Napoli
2010)“Il
merlo maschio” (I
libri del merlo, Saviano 2011) “minuscole”
(IL
LABORATORIO/Le edizioni, Nola 2016) “Impero”
(Oèdipus,Salerno-Milano, 2017) “Undici
distici per undici ritratti” (Levania
Rivista di Poesia n° 6/2017).”Colpa
del mare e altri poemetti”
(Oèdipus ,Salerno Milano 2018); “Baie”
(Oèdipus
,Salerno-Milano 2019) “Frammenti
del risveglio” (Oèdipus,
salerno, Milano 2021) Ἐλέα
(Les
Flaneurs Ed.,Bari 2024).
Due
volte finalista e una segnalazione speciale per “Una vita in versi”
nelle ultime tre edizioni del Premio di Poesia e Prosa “Lorenzo
Montano”.
Suoi
interventi di critica sono apparsi su Nazione
Indiana, Frequenze Poetiche, Infiniti mondi, La Clessidra.
È
presente nel “Dizionario Critico della poesia italiana (1945-2020)”
a cura di Mario Fresa.
È
presente in numerose antologie fra cui : Mundus.
Poesia per un’etica del rifiuto (Valtrend, Napoli 2008)
Accenti
(Soc. Dante Alighieri, Napoli 2010)
Alter
ego. Poeti al MANN (Arte’m
, Napoli 2012). Errico
Ruotolo, Opere (1961-2007) (Fondazione
Morra, Napoli,2012) Polesìa
(Trivio 2018, Oèdipus Edizioni) La Clessidra (2019)
Articoli
e interventi sulle sue opere sono presenti in riviste e blog (fra i
quali Nazione
Indiana, Il Segnale, Anterem, Carte nel vento, Infiniti Mondi,
ClanDestino, Trasversale, Versante Ripido, Frequenze Poetiche,
Atelier, Levania , Trivio , InVerso, Menabò, Poetarum Silva, Le
Stanze di carta, La Recherce, Carteggi letterari, La Clessidra, Zona
di disagio).
E’
stato fondatore con Gabriele Frasca e Mariano Baino della Casa
Editrice “d’If” e socio della Casa Editrice “Cronopio”.
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MIMMO GRASSO,
nato a Catanzaro nel 1948 ma vive da molti anni a Monte di Procida
(NA). Si è occupato di management e formazione delle risorse umane
in varie aziende. Poeta e saggista, ha editato lavori nel settore
letterario e delle arti visive, con impianto cognitivo-funzionalista.
Cura i quaderni aperiodici «Calibano», distribuiti presso amici e
dedicati al fantastico. È tradotto in varie lingue, antologicamente,
e da varie lingue traduce. Edita, con Mario Persico, le riviste
in-folio «Patapart» e «Tie’». Cura la collana di poesia “I
poeti di vico freddo” (Il laboratorio/ le edizioni). Ha pubblicato
i seguenti volumi di poesia: Cerchi
Mobili (Quinta
Generazione/Forum, 1973); L’amorosa
visione (collages
verbovisivi, Altri Termini, 1980); Mercurio (Altri
Termini, 1981); Liber
fulguralis (libro-oggetto,
autoprodotto, 1984); Preliminari (Altri Termini, Napoli, 1995); Ad
uso interno (Manni,
1998); Quarta
Corda (id.,
2000); n. 10 “pezzi” col Pulcinoelefante (2000-2005); Camera
ardente (I
Quaderni di Orfeo, 2005); Volturnio (La
Città del Sole, 2006 – edizione arabo-italiana); La
lunga Zip (Il
laboratorio/ le edizioni, 2006, con incisioni di Hella Berent); Come
la pioggia dopo la pioggia (id.,
2007, con incisioni di Manuel Cargaleiro, edizione
italo-portoghese); Sebeto (id.,
in lingua napoletana, “rifondata”, con interventi di artisti
visivi, tradotto in spagnolo. Letto questo testo, il regista Giuseppe
Ferrara iniziò un docufiction su Napoli, “Mater Mediterranea”,
vista cogli occhi di un poeta. Il lavoro rimase incompiuto per la
scomparsa di Ferrara); Taraterra (id.,
2009); Già
e non ancora (EOS,
2012, con lavori visivi di Rosella Restante); Lallagè (Il
laboratorio/ le edizioni, 2014, con incisioni di Vittorio Avella); Al
Dreyt Rien (id.,
2014); LPRGCM98H29H211C (id.,
2017, cartella d’arte con testi in italiano e napoletano
“illustrati” da Mario Persico); La
città dei sangui (id.,
2017, con incisioni di Hella Berent, edizione italo-tedesca). Alcuni
suoi testi sono stati musicati da Carlo Faiello.
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