(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 39 - Le ciglia di D.o (su una poesia di un verso solo di Ronny Someck)

 


di Sergio Daniele Donati

Prendere tra le mani un libro di Ronny Someck è sempre un’avventura senza principio né fine, ché la sua espressione poetica, tesa tra un lirismo appena accennato e un’ironia colta e pungente, che tuttavia non perde mai però il delicato filo della apertura – un’ironia, in altre parole, che crea spazi di comunicazione - non lascia mai indifferenti.


Se poi il testo in questione è
 Le piano ardent (Il piano ardente) uscito in Francia (traduzione di Michel Eckhard Elial, con testo ebraico a fronte) per la casa editrice Bruno Doucey, 2017– l’effetto in me si amplifica.
Non posso nascondermi –  nascondervi – il dato emotivo che un testo simile mi dona permettendomi di creare collegamenti immaginari tra le mie due lingue elettive: l’ebraico e il francese.
Ma penso che non sia questo il motivo principale per il quale questo testo mi provoca forti emozioni o, almeno, lo è in una accezione in parte laterale.
Due lingue, così distanti tra loro, appaiono ricollegarsi quando trovano sintesi in una immaginaria traduzione italiana.
Per questo motivo, e per altri mille, consiglio a tutti di leggere con attenzione quest’opera, da quando ne ho avuto possesso.

Una poesia della raccolta, composta di un verso solo, dedicata a Bessie Smith mi ha particolarmente colpito per il suo portato simbolico, umano e poetico. Essa così recita:

La sua voce è un ciglio caduto dagli occhi di D.o nel momento in cui ha pronunciato: e luce sia!” (n.d.r: l'indegna traduzione è mia)

Come cercavo di farvi notare sopra, siamo di fronte ad una scrittura delicatamente ironica che non perde affatto il suo lirismo, anzi, lo amplifica quando della Trascendenza umanizza i tratti somatici e collega l’effetto del primo dire divino, del primo atto creativo attraverso la parola dello stesso Creatore stesso alla voce della grande cantante Jazz.
La tradizione ebraica non è certo estranea a parlare del corpo di Dio a livello simbolico. 
La Torah è piena di riferimenti alle mani, agli occhi, alla voce della Trascendenza e la mistica del corpo è inscritta – lo si è detto più volte in queste pagine – nello stesso alfabeto ebraico, in cui ogni lettera richiama, per il suono del nome della lettera, o per il suo valore numerico, o per la sua forma, ad un elemento del corpo (si pensi ad esempio alla lettera Iod che richiama Iad – la mano –, o alla Pe(i) il cui nome richiama la bocca).
Ma qui a ben vedere il poeta va ben oltre la semplice descrizione di una tradizione millenaria. 
Una voce divina – la prima parola divina della narrazione – comporta per la tradizione il primo atto creativo di una luce (or) che dà inizio alle successive creazioni che avvengono per separazione (havdalà).

Questo è risaputo ma c’è qualcosa che nessuno prima di Ronny Someck aveva mai detto con una tale delicatezza, ovvero che quella voce che tutto crea porta con sé una delicata caduta.
Un ciglio dell’occhio divino cade nel pronunciare quel: e sia luce!
Un’immagine questa, come potete osservare, allo stesso tempo potente e fragile che ci narra della fatica, della caduta di ogni atto creativo, specie se liniziale e iniziatico, cui nemmeno la divinità appare essere estranea.

Non siamo di fronte ad una banale antropomorfizzazione del divino, tuttavia, ma a un tocco fine, come una pennellata degna del miglior Rembrandt sulla tela, da parte di Ronny Someck.
Quella caduta di un ciglio divino crea un’altra voce, quella della cantante Bessie Smith.

E, se prendiamo il testo ebraico (ma anche la traduzione francese) siamo di fronte ad una metafora senza similitudine.
La voce di Bessie Smith non è come la caduta di un ciglio divino ma è figlia della caduta stessa.

Non è, in altre parole, simile agli effetti nel corpo divino della creazione, immaginati del poeta, ma figlia di quegli stessi eventi.
Questo elemento disarma il lettore e lo trascina lontano, specie se si considera che, di fatto, di due voci si sta parlando.

Saremmo dunque di fronte ad una descrizione sinestetica, almeno a livello simbolico, giacché una voce (registro auditivo) provoca una caduta di un elemento divino corporeo (un sottile ciglio, che richiama la vista)  il quale semina la potenzialità canora di un’altra voce a venire.

Corpi e sensi dilatati e in comunicazione tra loro, dunque, in un verso solo.
Divino e umano dilatati e in comunicazione tra loro, dunque, in un gioco degli opposti capace di una creazione perpetua.

E, se ricordiamo che quel sia la luce non poté essere udito da nessuno se non dallo stesso Creatore, poiché tutto era ancora da creare, non possiamo non nasconderci l’emozione immensa che il poeta ci dona nel dirci che quel mancato ascolto ha prodotto una voce ascoltata da milioni di persone, una voce il cui calore e la cui capacità di creare empatia nell’ascoltatore è fuori discussione.

La divinità caduta, figlia dello sforzo creativo, dona frutti divini.
Nulla si perde in ciò che cade se la fatica del creare si connette alla pre-visione di un futuro.
Raccogliere tutto questo mondo in un verso solo penso sia un dono di una rarità unica.
Tanto altro si potrebbe aggiungere a commento di quel testo.

Ad esempio che questa vicinanza del divino all’umano trova in un non detto fecondo compagnia nel suo contrario, ovvero la prossimità dell’umano al divino.
La piccola voce umana che è capace di raccogliere i semi della fatica divina del creare attraverso la parola è un elemento che ci ricorda chi siamo e, secondo talune interpretazioni dalla storia millenaria, quale sia la funzione dell’uomo sulla terra, ovvero saper liberare scintille divine nel creato.
All'uomo il compito di liberare il divino da un nascondimento non del tutto eletto. 
Una teoria, questa, che allo stesso tempo crea effetti estetici simili a quelli di una stendhaliana sindrome e un timore profondo.
Il bello, il sublime, si accompagnano ad un timore e tremore dato dalla consapevolezza della nostra piccolezza di fronte a un compito simile. 

Il poeta pare suggerirci che Bessie Smith abbia colto, anzi raccolto, questo segno nella sua voce e forse, senza dirlo, ci ricorda l’onere del ricordo, del non oblio.
E io di fronte a questa composizione, a questo verso delicato e potente non posso che velarmi il volto in un gesto pudico di rispetto sai per il poeta che per le memorie che quel solo verso mi ha donato.


_________
TRADUZIONE IN FRANCESE
di Sergio Daniele Donati

Prendre un livre de Ronny Someck entre les mains est toujours une aventure sans commencement ni fin, car son expression poétique, tendue entre un lyrisme à peine esquissé et une ironie cultivée et piquante, qui cependant ne perd jamais  le délicat fil de l'ouverture – une ironie, en autres termes, qui crée des espaces de communication – ne laisse jamais indifférent.

Si le texte en question est Le piano ardent (Le piano ardent) (traduction de Michel Eckhard Elial, avec le texte hébreu en regard, maison d'édition Bruno Doucey, 2017), l'effet sur moi s'amplifie.
Je ne peux pas vous cacher – ni me cacher – l'émotion que me procure un tel texte, me permettant de créer des liens imaginaires entre mes deux langues de prédilection: l'hébreu et le français.
Mais je pense que ce n'est pas la raison principale pour laquelle ce texte me provoque de fortes émotions ou, du moins, cela en est une acception en partie latérale.
Deux langues, si distantes l'une de l'autre, semblent se reconnecter lorsqu'elles trouvent une synthèse dans une traduction imaginaire en italien.
Pour cette raison, et pour mille autres, je recommande à tous de lire attentivement cette œuvre, depuis que je l'ai eue en ma possession.

Un poème de la collection, composé d'un seul vers, dédié à Bessie Smith, m'a particulièrement frappé par son symbolisme, son humanité et sa poésie. Il se lit ainsi :

“Sa voix est un cil tombé des yeux de Dieu au moment où Il a prononcé: que la lumière soit!” (n.d.r: la traduction indigne est la mienne)

Comme je tentais de vous le faire remarquer ci-dessus, nous sommes en présence d'une écriture délicatement ironique qui ne perd en aucun cas son lyrisme, au contraire, elle l'amplifie lorsqu'elle humanise les traits somatiques de la Transcendance et relie l'effet du premier dire divin, du premier acte créatif par la parole du Créateur même à la voix de la grande chanteuse de jazz.
La tradition juive n'est certainement pas étrangère à parler du corps de Dieu au niveau symbolique.
La Torah est remplie de références aux mains, aux yeux, à la voix de la Transcendance et la mystique du corps est inscrite – cela a été dit plusieurs fois sur ces pages – dans l'alphabet hébreu lui-même, où chaque lettre évoque, par le son du nom de la lettre, par sa valeur numérique ou par sa forme, un élément du corps (pensez par exemple à la lettre Yod qui évoque Yad – la main –, ou au Pe(i) dont le nom évoque la bouche).
Mais ici, à bien y regarder, le poète va bien au-delà de la simple description d'une tradition millénaire.
Une voix divine – la première parole divine de la narration – implique pour la tradition le premier acte créatif d'une lumière (Or) qui donne lieu aux créations suivantes qui se produisent par séparation (Havdala).

C'est bien connu, mais il y a quelque chose que personne avant Ronny Someck n'avait jamais dit avec une telle délicatesse, à savoir: cette voix, qui crée tout, entraîne une chute délicate.
Un cil de l'œil divin tombe en prononçant ce : que la lumière soit!
Une image qui, comme vous pouvez le voir, est à la fois puissante et fragile, qui nous raconte la difficulté, la chute de chaque acte créatif, surtout si initial et initiatique, à laquelle même la divinité ne semble pas être étrangère.

Nous ne sommes pas en présence d'une banale anthropomorphisation du divin, cependant, mais d'une touche fine, comme un coup de pinceau digne du meilleur Rembrandt sur la toile, de la part de Ronny Someck.
Cette chute d'un cil divin crée une autre voix, celle de la chanteuse Bessie Smith.

Et, si nous prenons le texte hébreu (mais aussi la traduction française), nous sommes en présence d'une métaphore sans similitude.
La voix de Bessie Smith n'est pas comme la chute d'un cil divin mais est fille de la chute elle-même.

En d'autres termes, elle n'est pas semblable aux effets sur le corps divin de la création, imaginés par le poète, mais est fille de ces mêmes événements.
Cet élément désarme le lecteur et l'entraîne loin, surtout si l'on considère que, de fait, deux voix sont en question.

Nous serions donc en présence d'une description synesthétique, au moins au niveau symbolique, car une voix (registre auditif) provoque la chute d'un élément corporel divin (un cil subtil, qui évoque la vue) qui sème la potentialité chantante d'une autre voix à venir.

Corps et sens dilatés et en communication entre eux, donc, en un seul vers.
Divin et humain dilatés et en communication entre eux, donc, dans un jeu des opposés capable d'une création perpétuelle.

Et, si nous nous rappelons que ce que soit la lumière ne pouvait être entendu de personne sinon du Créateur lui-même, car tout était encore à créer, nous ne pouvons pas nous cacher l'immense émotion que le poète nous donne en nous disant que cette écoute manquée a produit une voix entendue par des millions de personnes, une voix dont la chaleur et la capacité de créer l'empathie chez l'auditeur ne font aucun doute.

La divinité tombée, fille de l'effort créatif, donne des fruits divins.
Rien ne se perd dans ce qui tombe si l'effort de créer se connecte à la prévision d'un avenir.
Rassembler tout ce monde en un seul vers, je pense que c'est un don d'une rareté unique.
Tant d'autres choses pourraient être ajoutées en commentaire de ce texte.

Par exemple, cette proximité du divin à l'humain trouve dans un non-dit fécond la compagnie de son contraire, à savoir: la proximité de l'humain au divin.
La petite voix humaine qui est capable de recueillir les graines de l'effort divin de la création par la parole est un élément qui nous rappelle qui nous sommes et, selon certaines interprétations dont l'histoire est millénaire, quelle est la fonction de l'homme sur terre, à savoir:  libérer les étincelles divines dans la création.

À l'homme la tâche de libérer le divin d'une occultation pas tout à fait choisie.
Une théorie, celle-ci, qui crée en même temps des effets esthétiques similaires à ceux d'un syndrome du Stendhal et une crainte profonde.
Le beau, le sublime, s'accompagnent d'une crainte et d'un tremblement, donné par la conscience de notre petitesse face à une telle tâche.

Le poète semble nous suggérer que Bessie Smith a saisi, voire recueilli, ce signe dans sa voix et peut-être, sans le dire, nous rappelle le fardeau du souvenir, de l'absence d'oubli.
Et moi, face à cette composition, à ce vers délicat et puissant, je ne peux que voiler mon visage dans un geste pudique de respect pour le poète et les souvenirs que ce seul vers m'a donnés.
stampa la pagina

Commenti

  1. Pietro Brogi2/1/25 10:54

    Solo una domanda: la traduzione del verso su Bessie Smith è stata fatta dall'originale in lingua ebraica o dal francese?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Da entrambi, ho mantenuto la versione libera conn "ciglio" al posto di "montagne" della magnifica traduzione francese dell'intera opera di Michel Eckhardt Elial, ma per il resto la traduzione di base parte dall'ebraico. Grazie.

      Elimina
  2. La forza evocativa della parola attraverso la delicatezza del tuo scrivere e sentire..
    Grazie di cuore Sergio ❤
    E luce sia!

    RispondiElimina

Posta un commento