(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 04 - Il Marescalco di Pietro Aretino
di Gianni Antonio Palumbo |
Tra
le figure di ‘irregolari’ della scena culturale e letteraria
cinquecentesca un ruolo di primo piano spetta a Pietro Aretino,
l’“infame” per Anton Francesco Doni (si veda la monografia di
Francesco Sberlati edita da Marsilio), o ancora il “flagello / de’
principi” come lo definì Ariosto nell’Orlando
Furioso,
(46, 14, 3-4), perché con la sua penna mordace aveva il potere di
consacrarne o affossarne la reputazione. Da figlio di calzolaio
assurse a figura protagonista della scena letteraria, complice “un
sagace adattamento alle opportunità nuove offerte dall’espansione
accelerata, nella Venezia degli anni 1530” (Paul Larivaille),
dell’attività editoriale. A Venezia era approdato nel marzo 1527,
in seguito alle avventurose vicende che lo avevano visto allontanarsi
da Roma dopo aver subito un attentato per volontà del datario
pontificio Giberti, ed aver soggiornato a Mantova, dove aveva goduto
della protezione di Giovanni dalle Bande Nere e poi dei Gonzaga.
Proprio il duca di Mantova è il deus
ex machina della
commedia di cui ci occuperemo oggi, Il
marescalco,
composta presumibilmente nel periodo mantovano (1526-1527) e
pubblicata per i tipi di Bernardino de Vitali nel 1533, o più
probabilmente nel 1534, perché nella cinquecentina sembra essere
stato utilizzato lo stile di datazione veneto.
Quest’ultimo
considera infatti come avvio del nuovo anno la data del 1° marzo.
Un’ulteriore redazione dell’opera risale al 1536.
La
produzione di Aretino si era già sviluppata in diversi ambiti; il
Nostro aveva composto sedici sonetti lussuriosi a commento dei
disegni erotici di Giulio Romano con incisioni di Marcantonio
Raimondi. Aveva all’attivo la commedia Cortigiana,
forse la sua più celebre opera teatrale, composta in due differenti
stesure già a partire dal 1525, prima di approdare alla stampa del
1534. Pièce
dal prologo ipertrofico, essa si muoveva lungo le due direttrici
della critica alle corti (dichiarerà il personaggio di Flamminio che
“ne l’inferno è tormentata l’anima, e ne la corte l’anima e
’l corpo”) e della parodia degli sdilinquimenti amorosi di
Parabolano e soprattutto di Messer Maco, alimentatori di un
verseggiare ora ampolloso, ora palesemente pedestre, tanto da
meritare l’etichetta di ‘castroneria’ da parte dello smaliziato
Maestro Andrea. Al centro del plot il motivo della beffa, che
attraversa tutta la produzione teatrale dell’Aretino, spesso
collocandola sotto l’egida del nume boccacciano. Sicuramente la sua
opera più celebre sono i cosiddetti Ragionamenti
che, come ha evidenziato Paul Larivaille nel saggio all’interno
della Storia
della letteratura italiana
della Salerno Editrice, meritano “molto meglio che la loro fama –
a lungo esclusiva – di capolavoro pornografico”. Di questi
ultimi, suddivisi nel Ragionamento
della Nanna e della Antonia (1534)
e nel Dialogo
nel quale la Nanna insegna alla Pippa (1536)
e noti come Sei
giornate,
ricordiamo l’edizione critica di Aquilecchia (Laterza, 1969). Nelle
prime tre giornate, la locutrice principale esaminava, in maniera
salace (eccessivamente, nella prima giornata) e arguta, gli stili di
vita di monache, maritate e prostitute; la seconda parte era
costituita dai precetti di avviamento alla vita da cortigiana
impartiti dalla Nanna alla figlia Pippa. Quanto a quest’opera,
nella presentazione dell’edizione a cura di Romualdo Marrone
(Tascabili Economici Newton, 1993), Alberto Moravia evidenziò come
Aretino “Scelse (…) una realtà ‘ignobile’ da descrivere con
toni ‘ignobili’; e tutto questo a scopo di ‘meraviglia’
virtuosistica, anche se con indubbia animalesca vitalità”.
Veniamo,
però, al Marescalco.
Protagonista della pièce
è, suo malgrado, il maniscalco della corte gonzaghesca, che si trova
a dover subire quello che apparentemente è un atto di liberalità
del duca, il volergli dar moglie costumata e in possesso di dote,
facendolo contestualmente cavaliere, e che invece, nella fattispecie,
assurge a crudele capriccio e sopruso. Il maniscalco, infatti, è
omosessuale e non vuole saperne di tor
moglie.
La decisione del duca, di cui il diretto interessato viene a
conoscenza per effetto del chiacchiericcio cortigiano, lo rende
sgomento. Egli si trova, così, a essere “berteggiato”, cioè
sbeffeggiato dai personaggi dell’opera, che perlopiù gli decantano
le meraviglie del matrimonio e la bontà del suo protettore. Le
reazioni del maniscalco sono ora scomposte ora sgomente, ma sempre
all’insegna di una ribellione repressa, che non può pienamente
dispiegarsi, pena l’ira del Signore. Quest’ultimo è tra l’altro
assente dalla scena, al pari di una divinità invocata ed evocata che
mai si manifesta direttamente. Scriveva Mario Baratto in Tre
studi sul teatro (Neri
Pozza, 1964) che il marescalco aretiniano è un “uomo affaccendato,
stanco; deluso; vorrebbe intorno a sé pace e silenzio; e invece
tutti lo costringono ad essere ‘personaggio’, a parlare, battuta
per battuta, per un’intera giornata. La burla, cioè, lo fa
improvvisamente ‘esistere’ per gli altri ma anche per sé”.
La
caratteristica senz’altro più interessante dell’opera è
l’inconsistenza del movimento scenico; come ha evidenziato Matteo
Bosisio (in «Pur
che il Signore abbia di me piacere». Il Marescalco
dell’Aretino
come anticommedia imperfetta,
“Critica letteraria”, 151, 2011),
pare che sia “la stasi stessa a essere messa in scena”. Infatti,
quasi nulla accade se non nel finale e assistiamo invece al
susseguirsi di una serie di scambi verbali, in alcuni casi monologhi
al confine con l’orazione, finalizzati a convincere il protagonista
ad accettare l’ipotesi del matrimonio o a ricusarla. In particolar
modo si scontrano due visioni. La prima è quella veicolata dalla
balia che prospetta al maniscalco un’improbabile, idilliaca e
zuccherosa, visione della vita coniugale, con un’immagine muliebre
del tutto artificiosa, di cui il passaggio seguente è un esempio:
“Tu arrivi in casa,
e la buona moglie ti
viene incontra in capo de
la scala ridendo,
e con una amorevolezza di cuore, dandoti di
un benvenuto ne l’anima,
ti leva la veste da dosso;
poi tutta festevole ti si rivolge inanzi, ed
essendo sudato, ti asciuga con
alcuni panni sí bianchi e
sí dilicati, che ti confortano tutto quanto,
e posto il vino in fresco,
e apparecchiato la tavola,
e fattoti buona pezza vento,
ti fa orinare” (atto I, scena 6; si citerà dall’edizione
critica dell’opera in P. Aretino, Teatro.
Tomo II. Il marescalco – Lo ipocrito – Talanta,
a cura di †Giovanna Rabitti, Carmine Boccia ed Enrico Garavelli,
Salerno Editrice, 2010). Non sfugga la matericità dell’elemento
strettamente fisiologico che interviene a sconciare l’aereo
quadretto, con l’autore che mostra maliziosamente le
bout de l’oreille.
Agli antipodi della perorazione della balia si pone il discorso di
Ambrogio, marito insoddisfatto che inanella una filza di luoghi
comuni misogini, non ultimo quello degli effetti della cosmesi, senza
la quale molte donne sarebbero inguardabili se non ricorressero, per
ragioni estetiche, a intrugli repellenti. Il topos della gioia
scaturita dalla genitorialità è poi neutralizzato dall’osservazione
di Ambrogio della frequente indecidibilità della paternità:
“la minor virtú ch’ella
abbi, è il farmi i figliuoli senza
ch’io ci duri una fatica al mondo,
e credo che
quelli che tengo per
miei, o che si tengono miei,
per parlar corretto, appartenghino a
me quanto San Gioseppe a Cristo”
(atto II, scena V). Alla festosa accoglienza quotidiana prospettata
dalla balia, l’uomo contrappone le rampogne tipicamente femminili,
tanto simili alle doglianze delle malmaritate nelle novelle
boccacciane; è ben noto, infatti, il gusto di Aretino per la
riscrittura di temi, motivi e a volte precise situazioni del
Decameron.
Filoginia
e misoginia si alternano, in un contesto che costantemente allude –
senza rivelarle esplicitamente – alle reali ragioni della
riluttanza del marescalco. Si è scritto che in questa commedia sia
assente dalla scena l’oggetto del desiderio: la fanciulla
costumatissima e ricca che il duca di Mantova dona in moglie al suo
sottoposto. Di lei si parla ripetutamente e acquisiamo, di scena in
scena, ulteriori dati. Il finale, però, ci riserverà la sorpresa
che rinverdisce un altro motivo della commedia antica: le nozze
maschie,
presenti, per esempio, nella Casina
plautina,
e che saranno riprese nella Clizia
machiavelliana
e, in qualche modo, anche nella Fantesca
di
Giovan Battista della Porta. Quella del duca è infatti una solenne
beffa; invece della morigerata fanciulla, il marescalco si ritroverà,
vestito da sposa, il bel paggio Carlo che, in una gustosissima scena
di sapore metateatrale, riceverà istruzioni comportamentali dalle
gentildonne e dalla vecchia che lo acconciano. Della burla il
marescalco potrà avvedersi solo dopo la celebrazione del rito, cui
il paggio risponderà con una formula che pare piuttosto simile a un
nitrito (“Signooor siiií”).
In
realtà, a ben vedere, l’oggetto del desiderio, che ovviamente non
è la sposa, è presente nella commedia sin dalla prima scena ed è
continuamente evocato. Il
marescalco si
apre infatti sul canto del servitore del protagonista, un Ragazzo di
cui subito apprendiamo il nome, Giannico. Uno dei principali
generatori di situazioni comiche, il bomolochos,
è proprio questo giovinetto, divertito dalla situazione in cui si
trova il suo padrone. Quest’ultimo, irritato, lo percuote e allora
Giannico, fingendo di lamentarsi perché il marescalco lo batte solo
perché ripete quello che tutti dicono (ossia che si sposerà), si
comporta da briccone aizzoso. Infatti, attraverso la ripetizione,
pare quasi volutamente (e direi voluttuosamente) cacciare il dito
nella piaga: “Il Signore è cagion che togliate moglie, e non io”
(atto I, scena 7), e poi ancora “Sua Eccellenzia, e non il vostro
ragazzo, vi dà moglie” (stessa scena). Quando il marescalco
risponde “Ti darò” (nel senso di “ti picchierò), l’altro
replica con un “Vo’ che mi diate” e, nel finale, muta la sua
condotta da lamentosa in giocosa, rientrando in casa sorridente:
“Entro, padron caro, padron santo, padron buono” (stessa scena).
Sembra, insomma, che abbia col maniscalco intavolato un vero e
proprio gioco di fanciullo birbante; tutta la vita pare per lui sia
gioia, canto, movimento. Che il ragazzo possa essere un implicito
oggetto del desiderio è dimostrato dalla battuta di uno dei
personaggi, Messer Iacopo. All’ingresso in scena, e al principio di
un dialogo brillante, quasi una sticomitia, l’uomo dice al
maniscalco: “Sempre ti trovo in conclavi col tuo pivo” (atto I,
scena 2), ricevendo dall’altro una eloquente risposta (“Mal che
Dio gli dia”, bel gioco paronomastico). Il vocabolo “pivo” (da
cui deriva il nostro “pivello”) reca già in sé un’ambiguità,
perché può voler dire “ragazzo” o semplicemente “paggio”,
ma può assumere anche l’accezione di “ragazzo effeminato, efebo,
cinedo” e addirittura è attestato in Aretino stesso, nei
Ragionamenti,
col significato di “membro virile”. Il termine “conclave”
invece, che vale anche quale “Stanza od appartamento da chiudersi a
chiave”, è adoperato nella Cortigiana
con il valore di incontro amoroso (atto II, scena 6). Insomma,
l’omosessualità del marescalco è oggetto di allusioni sin dalle
prime battute, come si evince dalla canzonatura del canto del ragazzo
stesso, il vitale Giannico, in apertura di commedia (“Il mio padron
to’ moglie, / Il mio padron to’ moglie in questa terra / In
questa terra; / La torrà, non la torrà, / Ei l’avrà, e non
l'avrà in questa sera, / In questa sera…”). E che l’ilare
irrisione del padrone sia uno dei suoi spassi prediletti si riscontra
quando, al cavaliere che esorta il marescalco dicendogli che “La
fortuna ha il crine dinanzi, avertisci in saperlo pigliare”,
Giannico risponde, sfacciatamente alludendo: “Se ella lo avesse
dietro” (atto IV, scena 3)… Una simpatica canaglia, insomma, un
“sottil ladroncello”, come lo definirà l’istrione che recita
il prologo e quale lo apostroferà anche la balia, riferendosi alle
inclinazioni del maniscalco: “Voi sète cagione d'ogni male,
ladroncelli” (atto I, scena 4). Altrove, poi, il marescalco lo
chiamerà deliziosamente “demonio tentennino”, diavolo tentatore
(atto II, scena 6)
Giannico
incarna quella mascolinità sbarazzina, forte di una giovinezza
esuberante e spensierata, che sembra farsi beffe del mondo degli
uomini maturi. In tal direzione è significativo il suo rapporto,
sfrontato, con il Pedante, personaggio che, nel teatro
cinquecentesco, conoscerà la sua delineazione proprio con Il
pedante di
Belo e Il
marescalco,
assumendo tratti poi divenuti canonici. Il magister
sostiene
l’opportunità del matrimonio e lo fa nel suo patchwork
linguistico
che fonde latino e volgare (“Caro e unico marescalco, animadverte
là nel Vecchio Testamento, e vederai, oculata fide, sí come erano
expulsi de i templi, ed interdettogli ignem et aquam, tutti quelli
che, sterili di prole, conculcavano la machina mundiale”, atto I,
scena 9). Il Pedante è l’emblema dell’uomo di cultura noioso,
che affronta problemi ‘pedagogici’ con l’ossessione delle
sferzate (le “verberature”) e fa sfoggio di una cultura
asfittica, mera erudizione, tra l’altro non sempre precisa. Si
vedano, a tal proposito, gli strafalcioni quali la citazione di
un’inesistente de insomnio Scipionis
di
Plutarco (atto IV, scena 5) o l’elenco delle “dieci” Muse, tra
cui contempla (atto V, scena 3) Minerva, Venere e Pallas, per non
parlare della storpiatura dei nomi delle altre… Ogni qualvolta il
maestro prende le parola, il ritmo langue e si rischia –
volutamente da parte dell’autore – di scivolare nei binari della
noia. Nel processo di carnevalizzazione tipico della commedia, è
naturale che questa figura debba essere oggetto di punizione (a tal
proposito si potrebbero menzionare Frye e Stäuble) proprio da parte
di quella gioventù che l’azione e l’autorità didattica subisce.
A orchestrare la punizione, tra l’altro da tergo (spesso
nell’immaginario dell’epoca tale tipo di personaggio sarà
associato alle pratiche sodomitiche), sarà – istigato da Giannico
– il paggio del cavaliere. In un contesto in cui, con l’esuberanza
verbale che caratterizza l’Aretino, il Pedante sarà definito
“barbagianni”, “pecorone”, “sorbi-bruodo”,
“pappa-fava” e “trangugia-lasagne”,
il gioioso Ragazzo così ordirà il piano di umiliazione di “quello,
che insegna il pater a i puttini”: “Io lo terrò a bada, e tu
intanto vieni via, ed appiccatogli li scoppietti, da’ fuoco a la
girandola” (atto II, scena 1).
Tanto
ancora si potrebbe dire di quest’opera, sapidissima a dispetto
dell’apparente staticità. Non mancano riferimenti al mondo
soprannaturale, con la Balia (personaggio che pure a tratti si
esprime nel pasticcio latino-volgare) che s’improvvisa onirocritico
e, dopo aver invano tentato di persuadere il marescalco alle nozze,
cerca di coadiuvarlo nel tentativo di stornare la sorte indesiderata,
ricorrendo alla magia. E qui s’andrà persino a scomodare il Tobia
artefice di esorcismi nell’immaginario biblico: “Ti scongiuro per
Tubia, / che ne vada a la tua via” (atto II, scena 10), reciterà
il protagonista. Nella commedia, che per buona parte ammicca alla
trattatistica an
uxor sit ducenda,
il gusto della beffa finisce con il trovare la più degna
conclusione. La corte che canzonava il malcapitato marescalco
scoprirà di essere stata gabbata e che le nozze erano – come si
diceva – una colossale burla. A suggellare una giornata
“particolare” sarà dunque il riso, di cui il protagonista,
sollevato e soddisfatto anche perché forse pregusta amplessi col bel
Carlo, è ora partecipe e non più solo vittima. Eppure, in filigrana
s’insinua costantemente quanto asserisce Ambrogio quando dice:
“tacciamo de i signori,
ché piú pericolo è
a mentovargli in vano che messer Domenedio”
(atto II, scena 5)... Tutto, infatti, si scioglierà in un’atmosfera
festosa, ma resta l’arbitrio di un potere, quello signorile, che
muove a suo piacimento i destini dei sottoposti, mentre la corte trae
godimento dal disagio della vittima di turno.
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