(Redazione) - Dissolvenze - 40 - Storia di un pettirosso

 

di Arianna Bonino

Se dico Potter, scoiattoli, gattini e anatroccole con tanto di cuffia in testa e grembiulini azzurri bordati di pizzo, e magari aggiungo la descrizione di ridenti scenari campagnoli vittoriani, sono certa che molti di voi penseranno alla ben nota disegnatrice inglese Beatrix, alla quale, in effetti, si devono le memorabili illustrazioni di storie ove i protagonisti sono teneri animaletti impegnati in dolci avventure dedicate all’infanzia. Chi non conosce Peter Coniglio, il simpatico lagomorfo dalla soffice pancia bianca che, nell’insolita bipede postura, gironzola con i suoi amici tra muretti, rose selvatiche e prati costellati di erica, almeno fino all’ora del tè, quando mamma coniglia richiamerà all’ordine i vivaci cucciolotti radunandoli attorno ad una tonda ed invitante tavola perfettamente allestita con tovaglie bianche e tazzine in porcellana, ove i piccoli gusteranno la merenda a base di fumante infuso, biscottini al burro e torta di carote?
Ecco, scordatevi che sia questa la storia che mi appresto a raccontarvi. D’altronde, non fa proprio per me la rassicurante atmosfera dei cottage immersi nella brughiera, dove stuoli di soffici leprotti si raccolgono davanti al camino attorno a nonno gufo, che, sprofondato nella sua sedia a dondolo, sfoglia un enorme librone, pieno, a sua volta, di favole piene, a loro volta, di altrettante morali, le quali lui si assicura giungano a destinazione lanciando sguardi eloquenti al di sopra dei suoi occhiali tondi calati sul naso, cioè sul becco, a ben guardare.
Anche la mia è una storia di curiosi e teneri animaletti. E, altrettanto, si svolge nella ridente campagna inglese. L’epoca è, poi, la stessa. E destino vuole che anche la mia storia chiami in causa un Potter. Anche il mio Potter, oltretutto, ha creato storie ove cuccioli dalla fulva pelliccia e pennuti da cortile hanno avuto ruolo da protagonisti, antropoformizzati tanto se non addirittura più di quelli della suddetta disegnatrice.
Si tratta però di un Potter che non ha nulla a che fare con Beatrix, nonostante l’omonimia e la notevole serie di coincidenze che, a prima vista, paiono stabilire una sorta di parallelismo ove, peraltro, vedremo compiersi una netta divergenza di percorsi. Non si esclude, oltretutto, che sia stata Beatrix (e non viceversa) a trarre ispirazione dall’omonimo zoofilo.
Il mio Potter di nome fa Walter e nasce il 2 giugno1835 nella contea del West Sussex. E sarà esattamente nel piccolo villaggio di Bramber che Potter trascorrerà la sua intera esistenza.
Se un giorno capiterete da quelle parti, è probabile che questo avvenga per caso o per errore, considerando che il villaggio non ha una stazione ferroviaria e conta attualmente circa 700 abitanti, non mi risultano ostelli o alberghi pronti ad accogliervi e, a parte il sempre piacevole paesaggio dell’ Inghilterra del Sud, come unica attrattiva offre le rovine molto rovinate di un antico castello, sempre che non vogliamo includere nei centri d’interesse di Bramber il piccolo cimitero di campagna, ove, in effetti, trovereste anche la sepoltura di Walter Potter, che ivi morì il 21 maggio 1918.
Ben più accattivante sarebbe stata la possibilità di escursioni se vi foste trovati a Bramber nell’epoca in cui vi visse Potter. Intanto, l’avreste riconosciuto subito: grossi baffi, un eccentrico cappello da barcaiolo in testa e un vistoso orologio da panciotto sfoggiato con fierezza, tanto da far invidia al Bianconiglio di Carroll. L’avreste trovato intento alla coltivazione dei fiori nel suo giardino, attività a cui si dedicava per passione, ma anche per secondaria professione.
Ma non è certo il caso di guidare per chilometri e chilometri solo per curiosare le quotidiane abitudini botaniche di un baffuto uomo di campagna inglese! E infatti non è per questo motivo che avreste raggiunto lo sperduto villaggio di Bramber. Potter aveva una passione molto più stravagante del giardinaggio. Amante degli animali, sviluppò fin da ragazzo uno strano hobby, che ben presto si trasformò nella sua vera e propria ragione di vita e che lo rese noto in tutta l’Inghilterra e non solo.
Fin da ragazzo Walter era dedito all’allevamento di taccole e all’addestramento degli storni, a cui si dedicava quando non aiutava il padre nella locanda del paese, il White Lion.
E fu proprio per preservare oltre la morte il corpo dei suoi amati pennuti che, da autodidatta, iniziò ad applicarsi alle tecniche di imbalsamazione.
La tassidermia era molto diffusa in epoca vittoriana, considerando che era (e comunque rimane) il miglior modo per preservare il corpo di un animale morto e che, d’altronde, all’epoca non esisteva salotto buono o meno buono ove non comparissero, disposti spesso con un gusto che oggi riterremmo inquietante, corvi, cornacchie e altri pennuti, ma anche piccoli mammiferi e rettili.
Insomma, è un’atmosfera all’arsenico e vecchi merletti quella che viene in mente, arsenico che all’epoca era la sostanza principale che, in forma di pomata, veniva utilizzata per procedere alla concia delle pelli destinate all’imbalsamazione, in considerazione delle proprietà antitarme del suddetto velenifero preparato.
C’è da dire, però, che Potter non intraprese l’attività di tassidermista in modo convenzionale e cioè al solo scopo di assicurare ai suoi clienti l’eterna compagnia salottiera degli amati e fedeli amici a quattro zampe o di procurare loro le – oggi discutibili – decorazioni zoologiche per le loro magioni.
La maggior parte degli animali che Potter imbalsamava erano destinati ad altro uso. Gli esemplari, ormai defunti, di lepri impallinate, nutrie e topolini finiti nelle trappole dei contadini e tutte le altre specie che vi possano venire in mente pensando alla campagna inglese, provenivano a Potter dai suoi compaesani cacciatori, allevatori, contadini, e da chiunque fosse incappato a Bramber e dintorni in un animale da pelo da piuma, ma comunque morto, cosa assai frequente nelle aree rurali ed agricole, anche in quelle inglesi, come è facile immaginare.
Potter non si limitava a imbalsamare le bestiole: ben presto, infatti, decise di dar libero sfogo alla sua fantasia, creando delle incredibili scene, degli accuratissimi tableaux vivants. Ecco, a questo punto qualcuno di voi mi dirà che di vivant nei tableaux di Potter non c’era un bel nulla. E tutto ciò è innegabile, anzi, è proprio il segno distintivo di tali opere.
Ebbene, a parte l’ovvio e piccolo dettaglio dello stato mortale dei figuranti, queste scene hanno però almeno tre straordinari pregi: prima di tutto, sono la prova di una grande abilità tecnica nella ricostruzione di paesaggi e personaggi intenti a svolgere le più varie attività; in secondo luogo, esprimono l’incredibile fantasia e creatività di Potter (non necessariamente ridente e giocosa, visti alcuni di questi allestimenti); e, infine, rappresentano una preziosissima traccia di storia e folclore di enorme valore culturale, perché sono la memoria figurata, anche se in modo così bizzarro, di abitudini, usi e costumi inglesi ormai perduti.
Senza parlare, poi, di particolari mostruosità della natura eternate da Potter con le sue tecniche di conservazione. Animali freaks, si potrebbe dire: quelle cose un po’ raccapriccianti che però, anzi, proprio per questo, abbiamo spesso la curiosità morbosa di osservare, divisi tra l’attrazione e la repulsione che può derivare da un pollo a due teste o da un paio di gattini siamesi non per razza, ma per indissolubile gemellaggio.
Ma ciò che iniziò ad attrarre visitatori a Bramber furono soprattutto i tableaux di Potter, quasi dei presepi animali che, per complessità e articolazione, talvolta per essere allestiti in modo definitivo e completo, potevano richiedere anche anni di lavoro, vista l’accuratezza con cui l’autore si occupava di ogni minimo componente.
Solo a titolo d’esempio, si veda il quadro “The Kittens’ Tea & Croquet Party”, dove i trentasette piccoli protagonisti, nel pieno rispetto dell’etichetta del rituale del tè, scambiano pettegolezzi e chiacchere attorno ad una tavola splendidamente imbandita e curata nei minimi particolari: dalle foglioline di tè presenti nelle tazze, al pan di Spagna d’accompagnamento; per non parlare dell’elegante servizio in porcellana decorata sfoggiato per l’occasione dal padrone di casa.
Poco distante, si svolge una partita di croquet, dove non mancano eleganti dame-gatte, fornite degli immancabili parasole, indispensabili per proteggere il loro delicato incarnato vittoriano:
Passare dalle prime esposizioni della nascente collezione, allestita in solaio, ad un vero e proprio museo, a cui venne dedicato un edificio limitrofo alla locanda, fu un attimo: i proprietari del White Lion erano ben lieti di sostenere la passione di Potter, visto il crescente numero di avventori che, dopo un paio di spumeggianti boccali di birra, si lasciavano sedurre dalle sue curiosità, per tornare poi, non di rado, alla locanda per godere di una nuova pinta, brindando alla salute di scoiattoli e topolini impagliati.
La fama di Potter cresceva di giorno in giorno, così come si espandeva la mirabile collezione delle sue opere. Ma non di solo arsenico vive l’uomo… e, infatti, Walter, ormai trentenne, decise che tra un tableau e l’altro, ci si poteva anche sposare, così come fece, nel 1867, con Ann Stringer Muzzell, una ragazza del villaggio, con cui negli anni successivi, ebbe tre figli. La famiglia Potter viveva nel cottage adiacente il museo, proprio di fronte alla birreria, ove ogni sera, una volta chiuso il portone del museo, Potter intingeva i baffoni nella schiuma della sua quotidiana pinta e, di sottecchi, osservava gli avventori nei loro atteggiamenti, ascoltando i loro racconti; gente e storie di vita quotidiana da cui prendeva ispirazione per i suoi eclettici tableaux.
L’ispirazione, però, venne a Potter anche da Hermann Ploucquet e dai suoi bellissimi quadri riproducenti scene dalla storia di Reinard la Volpe, presentati nella Great Exhibition of the Works of Industry of All Nations svoltasi a Londra nel 1851:
Potter divenne così, e ben presto, il più noto, e ammirato tassidermista d’Inghilterra e la sua tecnica “domestica” d’imbalsamazione, a base d’arsenico, gesso e scaglie di sapone, la più imitata.
Il Museo ebbe anche visitatori illustri e curiosi – pare, addirittura, Sua Maestà la Regina d’Inghilterra –che giungevano ormai da ogni dove per ammirare le meraviglie di Potter.
Dopo la sua morte, fu una delle due figlie, Ann, insieme al marito Edgar, a portare avanti e con discreto successo la gestione, alimentando la curiosità con eventi itineranti organizzati presso scuole e circoli, ove le opere venivano illustrate attraverso diapositive e lanterne magiche.
La collezione venne ulteriormente ampliata e permise al figlio di Ann di farne, a sua volta, una fiorente fonte di rendita.
Ma, come accade per tutte le cose, le mode cambiano e, comprensibilmente, anche i gusti estetici, i mezzi didattici e i sistemi di archiviazione storiografica. Soprattutto, però, come è facile comprendere, ciò che sancì prima la decadenza e poi la fine del museo, fu, senza dubbio, la graduale e irreversibile transizione di stato nella visione del valore della vita degli animali.
Dagli anni 60, infatti, non furono poche le polemiche di cui fu fatto oggetto il museo, che, per alcuni, era addirittura da considerarsi una manifestazione macabra e intollerabile di spregio e crudeltà nei confronti degli animali.
Fu così che il museo chiuse definitivamente nel 1972, anno in cui Antony Hirving rilevò l’intera proprietà, non certo con l’idea di preservarla, essendo in realtà in cerca di un ambiente in cui allestire ben altra collezione, essendo appassionato di pipe e articoli dedicati all’arte del fumo – ne possedeva oltre 20.000 – (passione che, detto per inciso, è anche questa, prima o poi, destinata presumibilmente ad avere stessa sorte della tassidermia seriale di Potter)
La collezione di animali imbalsamati venne quindi messa in vendita. Se ne interessò anche Madame Toussauds, il che non stupisce, considerando la sua particolare specialità.
Ma chi, infine, si aggiudicò per la modica cifra di 6.500 sterline i dieci camion di materiali, teche e scene di Potter fu, invece, James Cartland, nipote della nota scrittrice Barbara, che non riuscì però a restituire smalto e attrattiva al fenomeno Potter, vuoi perché, come detto, i gusti stavano ormai cambiando, vuoi perché i locali dove furono esposti i tableaux non risultavano adatti alla conservazione.
La collezione passò nel 1986 nelle mani di John e Wendy Watts, che la resero nuovamente fruibile al pubblico in un importante hotel della Cornovaglia; una seconda vita che durò fino all’inizio degli anni 2000, quando con la morte del curatore ed esperto tassidermista Mike Grace, a cui era stata affidata per la conservazione e l’ampliamento, venne a mancare ogni futuro per gli animali in scena di Potter.
Inventariata, a quel punto (finalmente e per la prima volta), la collezione Potter venne messa all’asta nel 2003 e finì letteralmente smembrata, pezzo dopo pezzo, tableau dopo tableau, i quali, infatti, furono venduti singolarmente e finirono sparpagliati per il mondo, separandosi per sempre.
A nulla valse il tentativo di Damien Hirst, la cui offerta di 1 milione di sterline per acquistare la totalità dei materiali fu ignorata, forse perché troppo tardiva, forse nel tentativo di ottenere maggior resa economica dalle vendite particolari.
Per chi, come me, prova un senso di nostalgia per queste buone cose di pessimo gusto, rimane ancora una possibilità, che è poi quella di partire in un giorno qualunque, ma che sia di novembre, e mettersi in viaggio inoltrandosi nella più profonda campagna inglese, nel Warwickshire, in quelle Midlands Occidentali che diedero i natali a Shakespeare, e vedere se la Victorian Taxidermy Company, ivi dislocata, consenta una visita ad un tableau di Potter davvero speciale, forse il più bello di tutti, che l’impresa si è aggiudicata all’asta per ben 20.000 sterline.
Si chiama The Death & Burial of Cock Robin ed è ispirato ad una triste e dolcissima filastrocca per bambini che racconta della morte e sepoltura di un pettirosso assassinato con una freccia nel cuore da un passero, una storia che William aveva letto nel libro di fiabe preferito della sua sorellina. Quella di Cock Robin è una storia molto antica, le cui origini sono incerte. Una vetrata multicolore raffigurante un pettirosso ucciso da una freccia era già presente nel XV secolo nel Gloucestershire, nella canonica di Buckland. Se ne possono rintracciare diverse versioni, tutte accomunate da memorabili scene in cui gli uccelli e gli altri animali del bosco si distribuiscono i compiti per celebrare le esequie del pettirosso: compaiono, tra gli altri, il gufo, il nibbio, il corvo, la colomba. Uno scaverà la fossa, l’altro trasporterà la bara, mentre il corvo leggerà il messale e sarà la colomba a spargere le sue più dolci lacrime sulla tomba del pettirosso.
Per figurare questa incantevole e mesta filastrocca, Potter impiegò oltre sette anni. Oltre cento uccelli piangenti popolano la scena. In diversi casi, nei loro occhi sono presenti piccole gocce, un immortale pianto di vetro. Tra gli animali di questa teca compaiono anche specie rarissime se non addirittura ormai estinte.

Sullo sfondo c’è un dipinto ad olio in cui Potter raffigura la chiesa, nella tipica pietra del Kent e del Sussex. Attrezzi e dettagli sono realizzati in legno, pietre e pelle e sulle lapidi del cimitero sono incise le inziali dei tumulati. Nell’erba, tra i muschi, si annoda una piccola biscia, che osserva forse il volo delle farfalle aleggianti sulla bara del pettirosso.
Sono cose che non hanno più pubblico, ombre e resti di un passato dissolto e dal sapore ormai incerto. Eppure dicono ancora qualcosa, qualcosa di sospeso tra la fiaba e la paura, tra la vita e il ricordo di lei.
La filastrocca che, ne sono certa, così come la sua figurazione, sarebbe piaciuta anche a Shakespeare, dice così:

Here lies Cock Robin,
Dead and cold;
This book his end
Will soon unfold.
Who kill'd Cock Robin?
I, said the Sparrow,
With my bow and arrow,
And I kill'd Cock Robin.

This is the Sparrow,
With his bow and arrow.
Who saw him die?
I, said the fly,
With my little eye,
And I saw him die.
This is the Fly,
With his little eye.

Who caught his blood?
I, said the Fish,
With my little dish,
And I caught his blood.
This is the Fish,
That held the dish.

Who'll make his shroud?
I, said the Beetle,
With my thread and needle,
And I'll make his shroud.
This is the Beetle,
With his thread and needle.

Who'll dig his grave?
I, said the Owl,
With my spade and showl,
And I'll dig his grave.
This is the Owl so brave,
That dug Cock Robin's grave.

Who'll be the Parson?
I, said the Rook,
With my little book,
And I'll be the Parson.
Here's Parson Rook,
Reading his book.

Who'll be the Clerk?
I, said the Lark,
If 'tis not in the dark,
And I'll be the Clerk.
Behold the little Lark,
Says Amen like a Clerk.

Who'll carry him to his grave?
I, said the Kite,
If 'tis not in the night,
I'll carry him to his grave.
Behold the noble Kite,
About to take his flight.

Who'll carry the link?
I, said the Linnet,
Will fetch it in a minute,
And I'll carry the link.
Here's the Linnet with the light,
Although it is not night.

Who'll be chief mourner?
I, said the Dove;
For I mourn for my love;
And I'll be chief mourner.
Here's the pretty Dove,
That mourns for her love.

Who'll bear the pall?
We, say the Wrens,
Both the cock and the hen,
And we'll bear the pall.
Here are the Wrens so small,
Who bore Cock Robin's pall.

Who'll sing a psalm?
I, said the Thrush,
As he sat in the bush;
And I'll sing a psalm.
Here's a fine Thrush,
Singing psalms in a bush.

Who'll toll the bell?
I, said the Bull,
Because I can pull;
So Cock Robin, farewell.
Here is the Bull,
Who said he could pull.

All the birds in the air
Fell to sighing and sobbing,
When they heard the bell toll
For poor Cock Robin.
...
Sì, è vero, il pettirosso è morto ammazzato. Eppure vivrà per sempre in chi l’ha celebrato.
________
[N.d.A.]: Tutte le immagini sono tratte da “Walter Potter’s curious world of taxidermy”, Dr Pat Morris with Jhoanna Ebenstein, foreword by sir Peter Blake, Constable, Little, Brown, Book Group, 2013).
stampa la pagina

Commenti

  1. Molto interessante, davvero. Grazie per questo viaggio 🌷

    RispondiElimina
  2. eh sì... il mondo cambia. Grazie per questo bellissimo articolo Arianna.

    RispondiElimina

Posta un commento