(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 40 - Piccole riflessioni laterali sull'etica della parola (prima parte)

 



di Sergio Daniele Donati

I

A ben vedere, non c'è una grande distanza tra scrivere poesia e osservare del respiro le apnee. 
Ogni tentativo di scrittura si situa sul sentiero stretto tra l'esperienza della vita e la sua rielaborazione mediata. 
Eppure chi scrive sente necessariamente vibrare tra i suoi segni un afflato vitale che traduce – come può – nei lemmi che poi elegge come degni di posarsi sulla carta. 
E ogni tratto di scrittura allo stesso tempo crea mondi e vive l'entropia del limite congenito della parola. 
Di questo è ben cosciente il poeta che sa che non esiste lettera che non celi in sé una chiave di nascondimento e, allo stesso tempo, un significante che in un certo senso non ne nasconda un altro; mille altri.

Ciò che spesso viene chiamato stupore, quindi, in poesia altro non è che una sorta di fermata, un momento di stasi che ci permette di stare in contatto con la parola, sia quando scriviamo che come lettori. 
Ovviamente ci sono poesie che di questo ritmo sincopato sono in un certo senso l'archetipo, e altre che, pur vivendone le striature necessarie, appaiono parlarci d'altro. 
Questo perchè ciò che qui cerco di esprimere è connesso alla parola in sé e al suo uso in ogni contesto, da quello quotidiano a quello poetico più elevato. 
Alla parola non ci si può avvicinare oltre un certo limite, se non si vuole vivere sulla pelle il rischio dell'abrasione, dell'ustione e della spogliazione. 

È vero però anche il contrario, ossia che più ci si esercita nella facoltà del lasciarsi attraversare dalla e dalle parole, più l'ustione, che pure persiste, crea spazi dentro di noi.
E sono campi fertili.

Allora, se di questo approccio meditativo alla scrittura parliamo, ecco il motivo principale per cui non si può concepire nessun tentativo poetico senza contemplare il corpo (del poeta? del lettore? del critico?).
Anche nell'espressione più concettuale e astratta del pensare poetico il corpo rappresenta il campo di crescita o di definitiva chiusura di ogni dire. 
È sempre nel corpo che mette radice o, al contrario, si diluisce la parola.
L'affinamento delle facoltà anche posturali del poeta, in altri termini, non è mai abbastanza indagato. 

II

Ogni parola nasce necessariamente "figlia", così come ogni essere umano.
Esser figli è la condizione necessaria che assimila uomo e parola. 
E, come ogni figlio, anche la parola non necessariamente conosce la condizione di padre o madre. 
Non tutto ciò che è generato genera, e di questa muta coscienza sia l'uomo che la parola, se consapevoli, posso fare ancora una volta un terreno di crescita, interiore prima, esterna poi. 

La prima domanda che chi scrive poesia dovrebbe porsi nei confronti del flusso di suoni che lo attraversa riguarda la sua sorgente, la sua fonte antica, forse senza tempo. 
Quale viaggio ha compiuto il millenario corpus poetico per manifestarsi anche solo in questo piccolo segno di interpunzione che, giocando con una finzione  puerile, mi ostino a dire "mio"?

E la Parola, ancor prima delle parole, di cosa è figlia poi? Da quale spinta, di quale chiusura di occhi, mancato ascolto, evitato contatto sorge il nostro scrivere (o leggere e interpretare segni)?

Sono domande senza risposta certa ma che bisogna porsi, e continuare a porsi di nuovo, ogni volta che si scrive o si legge. 
Perchè non c'è nulla di più importante, per chi ha eletto la penna come sua arma espressiva, che liberarsi dalla nefanda idea del possesso sulla parola. 

Così come i nostri figli non ci appartengono - e di essi, secondo un antico pensiero siamo già prima della loro nascita debitori - lo stesso si può dire della nostra relazione con le parole che pronunciamo, scriviamo e lanciamo lontano. 

III

Indagare il nostro rapporto con il silenzio è un paradosso dal quale non possiamo sottrarci, specie se scriviamo, ancor più se scriviamo poesia. 
È quello con il silenzio un rapporto che sorge deficitario e balbuziente ma del quale non possiamo ignorare, o fingere di ignorare, l'esistenza. 
E, laddove la parola ci connette al corpo, il silenzio ci connette alla nostra evanescenza, alla nostra mancanza strutturale di una identità definibile.
Per questo motivo, e per mille altri, la domanda sul silenzio ha allo stesso tempo l'afflato di una spinta utopica, che i segni di una manifestazione necessaria. 
Porsi in ascolto del silenzio, dello spazio vuoto tra le lettere, è un nonsense proficuo, che rinforza in noi la ossimorica e paradossale memoria di ciò che non siamo stati e non siamo ancora.
E non parlo di memoria a caso. 
Ciò che ancora non siamo genera ricordo tanto quanto ciò che siamo stati, nella parola, così come nella vita. 
E di quel vuoto tra le lettere, chi scrive si nutre; solo però se con un'alchemica abilità sa applicare i giusti dosaggi e le giuste misure.

Come apprendere tutto questo?
Osservando la delicatezza con cui la foglia d'autunno si stacca dal ramo e si posa a terra, a cercare riposo.
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