(Redazione) - Specchi e labirinti - 33 - Su “Quando gli alberi erano miei fratelli" di Guglielmo Aprile (Tabula Fati, 2024)

di Paola Deplano



Prediligo i libri di poesia che gravitano attorno ad un solo argomento, poiché indiziano una progettualità poetica che non sempre le sillogi multiformi hanno. Queste ultime, in tanti casi, sembrano seguire un estro momentaneo e disordinato del loro autore e lasciano il lettore a chiedersi perché dovrebbe continuare a leggere tutto ciò. I libri di liriche monotematiche, al contrario, sono giocoforza più ponderati, distillati da un adeguato tempo di scavo interiore e sono maggiormente soggetti alla limatura espressiva, da sempre ottima amica dell’ottima poesia. Ecco, Quando gli alberi erano miei fratelli, di Gugliemo Aprile (Tabula Fati, 2024) appartiene a questa seconda categoria. Il tema centrale è ovvio, sin dal titolo: una passeggiata nelle multiformi potenzialità del canto poetico applicato a figure arboree. In questo, Aprile non è l’unico, ma è in ottima compagnia. Di primo acchito mi viene in mente uno dei più grandi poeti italiani viventi, Umberto Piersanti, da sempre avvezzo a muoversi, per dirla con il titolo di un suo libro, Tra alberi e vicende. (Per qualche altro nome più o meno noto segnalo l’interessante volume di Mino Petazzini dal titolo La poesia degli alberi. Un’antologia di testi su alberi, arbusti e qualche rampicante, edito da Luca Sossella Editore nel 2020).
La poesia di Aprile è seria, senza fronzoli, con un gioco di parole la potremmo definire radicata nel suo mondo di uomo che vede la natura come un punto di partenza, più che un punto di fuga. C’è un mescolarsi alle piante e quasi una benefica invidia della loro resilienza, della loro accettazione di qualsivoglia destino, che invece è sconosciuta all’uomo, spesso avviluppato senza costrutto in irrisolte tempeste interiori. 
Emblematica di questo stato d’animo – quasi un manifesto poetico dell’autore - è la lirica che segue:

IL SEGRETO DEGLI ALBERI

Provo quasi per ogni albero invidia:
quanto per me è cecità, nebbia, enigma
è per un tiglio, come per gli steli
che popolano il prato più ordinario,
certezza innata, che non ha bisogno
di prove o spiegazioni, conoscenza
che serba in sé ogni povero cespuglio
che sull’orlo di una radura affacci,
ogni arbusto che provi ad ancorarsi
nella più angusta fessura tra i sassi,
ogni germoglio che le sili braccia
aggrappi con quanta forza ha ai riarsi
zigomi di una parete o sui fianchi
di una scogliera che digradi ripida
e quasi verticale, fino al mare;
e lo sanno le alche che si lasciano
pettinare dalle correnti e in grembo
all’altalena delle onde si dondolano;
e nelle venature di ogni foglia
e sulle rughe sei tronchi, memoria
della nazione vegetale, è scritto
che ha tutto ciò che è verde sempre un’anima.

Mi piace citare qui un altro dei tanti componimenti del volume che ricalca e ribadisce lo stesso concetto:

LA FORZA DELL’OLIVO (I)

Guardalo, questo olivo: così magro,
esili le sue braccia, da fanciullo,
eppure salde, che sembrano tese
al cielo a tenerlo su, loro sole.
E le radici, con quale tenacia
avvinghiate alla roccia, che nemmeno
una piena del fiume, una burrasca
le disarcionerebbe dal terreno.
E il seme è duro, paziente, sopporta
gelate e siccità, con la fierezza
di un martire: lo sa, prima o poi il tempo
verrà di aprirsi, basta solo attendere.
Appare delicato, quasi fragile;
ma c’è una forza nascosta in ogni albero,
la stessa che nel grembo oscuro dorme
che genera i vulcani, i fortunali;
e una linfa indomabile attraversa
le sue vene e cavalca lungo il tronco:
quella che nutre anche i fiori d’argento
sparpagliati nei prati bui del cielo.

È una lirica, questa, che è un inno alla resilienza. Non a caso l’albero scelto dal poeta per diventarne il simbolo è l’ulivo, albero secolare, apparentemente umile, ma alla base della civiltà mediterranea dalla quale discendiamo tutti. Per quanto riguarda lo stile della silloge occhieggiano tra i rami descritti da Aprile Leopardi, D’Annunzio, Carducci, Ungaretti e quanto di meglio la poesia italiana e ha avuto da offrire attraverso i secoli. Tali citazioni sono però così lievemente amalgamate al suo stile di da apparire
quasi frutto del proprio originale dettato poetico e non delle sue amate letture. Come non vedere nella poesia che segue non solo una leggenda bretone, ma anche l’eco delle metamorfosi della mitologia greco-romana, del dantesco canto di Pier Delle Vigne e della passeggiata nel pineto di Gabriele D’Annunzio?

LEGGENDA BRETONE

Custodiscono massi e tronchi fiabe
di altre età; in questa terra scabra
c’è una quercia che quando a tarda ora
il vento si alza e cieco si accanisce
sulle sue ossa, sembra che diffonda
un gemito tutt’intorno, monotono,
diffuso nelle valli, e che non tace
prima dell’alba, ogni giorno. Fu un uomo,

raccontano gli anziani, tagliaboschi
e pescatori del posto, che un tempo
scontò un’ingiusta condanna mutandosi
in quell’albero che oggi s’erge dove
egli fu senza colpa messo a morte.
E piange, a lungo, da solo, rinchiuso
nel suo corpo indurito, e la sua voce
è prigioniera per un maleficio
in quelle scaglie: ed è per la sua vita
toltagli senza diritto che piange,
per la gioia di camminare e stringere
al petto un volto caro; ne hanno pena
al villaggio, ascoltando insonni a notte
il martirio che perpetrano raffiche
e gelo sulle sue povere membra,
ma nessuno può nulla che consoli
il suo lamento o lavi la sua offesa.

Il mistero che sembra suggerirci il poeta in questa silloge non è altro che un panico rispecchiarsi tra specie molto più affini di quanto si possa pensare: l’uomo si mischia all’albero e si riscopre tutt’uno con lui, perché entrambi sono figli della natura e ne portano avanti – sebbene ciascuno a suo modo – l’incessante farsi e disfarsi dell’universo. 


__________
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive ad Ischia, dove si è trasferito per lavoro, dopo aver soggiornato per diversi anni a Verona. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali “Il dio che vaga col vento” (Puntoacapo Editrice, 2008), “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone, 2008), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle, 2015); “Il talento dell’equilibrista” (Ladolfi, 2018); “Elleboro” (Terra d’ulivi, 2019); “Il giardiniere cieco” (Transeuropa, 2019); “Falò di carnevale” (Fara, opera I classificata al concorso Narrapoetando 2021); “Il sentiero del polline”(Kanaga, opera I classificata al premio “Arcore” 2021); “Thanatophobia” (Progetto Cultura, opera I classificata al premio “Mangiaparole” 2021); “Tutto l’oro del mondo”, edito da Carabba, è la sua ultima opera. per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Boccaccio, Marino, Luzi, Caproni, oltre che sulla poesia del Novecento.
stampa la pagina

Commenti

  1. Grazie 🤩

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Felice che le sia piaciuto. Buona giornata. Paola Deplano

      Elimina

Posta un commento