(Redazione) - Fisiologia dei significanti in poesia - 11 - Ethos nella parola

di Giansalvo Pio Fortunato
Annunziare un ethos della parola, o farsi carico di essa nella visceralità, significa esortare la parola a gesticolare. Il gesticolare, prettamente e comunemente riferito al modo relazionale di un corpo, non esclude la parola; anzi: la centra, la irrobustisce, ne fa intendere la ricaduta ed il modo con il quale essa si esprime. In tal senso, preme sottolineare quanto la parola, più che essere una manifestatività (partendo dalla struttura ipotetica di un interno che deve fuoriuscire), rappresenti una manifestatività identitaria: il suo palesarsi è la sua articolazione e la sua articolazione è il suo palesarsi. Do per scontato che, quanto meno in poesia, si intenda la parola come materia autosufficiente e definitiva, o – meglio ancora – come unico baluardo possibile per il raggiungimento di una pienezza del sentire, che è sempre e comunque un sentire espresso. Il che implica, in tal senso, che la parola ammetta un’esperienza nuova ed inedita (non rinnovata) [1], e che la poesia inizi e si concluda nella parola. Cosa c’è, tuttavia, di innovativo in questa analisi? Buona parte dei poeti, infatti, non lavora solo pedissequamente sulla parola? Se deve, dunque, lavorare il poeta sulla parola, quanto è necessario soffermarsi sul motivo teoretico (non già ermeneutico) della parola? Che senso ha questa stessa rubrica?
La
descrizione teoretico-fenomenologica della parola – a maggior ragione
della parola in poesia – non va a sostituirsi alla parola poetica:
la rende, piuttosto, più vicina. Non la fa arrembare, per
intenderci, in terreni da esploratori romanzeschi. La fa, piuttosto,
collocare in una geografia creativa chiara (ma misteriosa allo stesso
tempo), e capace di aprire confini di libertà. La parola poetica,
più che di ogni altra parola,
riesce a costituire il paradosso creativo: tanto più si avvicina
alla genealogia del linguaggio – dunque all’istituzione di una
lingua, in tal senso poetica [2] – tanto più rende celato il suo
modo costituivo. Lo stato di incantamenti della parola poetica nasce
ogni qualvolta essa si sovrappone al modo di pensiero [3] e lo
radicalizza verso ciò che comunemente può essere inteso come il
sentire.
La radicalità, infatti, dell’intento non meramente rappresentativo
della poesia conduce a quella frammentazione ipotetica che fa
suggellare la parola al pensiero di parola, necessitando (almeno mi
auguro che sia così in ogni testo poetico) di quell’aura,
estremamente fascinosa, del diretto pensiero in parola. Da qui,
quindi, nascerebbero i diversi diverbi sulla parola poetica: la
parola poetica è inadeguata; la parola poetica è distinta dalla
parola quotidiana.
Annuncio:
la
parola poetica non è inadeguata.
L’essere
adeguato della parola scansa il miracolo, mostrando nell’atto
poetico più che la sua eccezionalità, la sua specificità. L’atto
poetico, dunque, non è il calibro di un lavoro iniziatico, ma è il
semplice modo di agire della parola nella sua massima potenzialità.
Nella poesia, allora, a trionfare non è il modo di sentire
[4], quasi come se il poeta fosse un sensitivo; è, piuttosto, il
modo di linguaggio. Tale assunto, apparentemente razionalistico ed
inanimato, ha per suo fulcro l’esigenza di iniziarsi alla parola
autentica, ricoltivando una rimodulazione complessiva del sentire. Se
il sentire rappresenta inevitabilmente il superamento di ogni
traslucidità della postura soggettiva, la parola è essa stessa
esperienza ed è sconnessa da ogni dislocazione di una presunta
interiorità non verbale. In quanto parola
come esperienza comune,
l’uomo si relaziona ad essa in quanto essere costituente un
linguaggio [5], implicando naturalmente l’uniformità dell’uomo
in quanto uomo. Dato, questo, che ha come ricaduta l’uniformità
del gesto di linguaggio rispetto ad altri gesti corporei [6].
Ma,
soprattutto, nella volontà di muoversi oltre ogni sensazionalismo
emotivo e di impressione, la parola poetica fa emergere quanto possa
essere comunemente complessa la creatività in parola. La parola
poetica, per intenderci, non ha il problema della sua espressione,
più di quanto non abbia il problema prim’ancora che della sua
costituzione, del suo vissuto. Nella parola poetica – per essere
ancora più netti – emerge quanto la parola non sia assolutamente
l’esito di una saldatura manifestante: non devo vivere totalmente,
in quanto poeta, uno stato di vissuto ed essere bravo a trovare le
parole giuste che lo rendano. Non siamo dinanzi ad un certosino
lavoro rappresentativo: la poesia non rappresenta la realtà. La
poesia è la realtà.
Da
qui, si pongono, in maniera abbastanza immediata, due interrogativi:
la poesia è un’esperienza a sé stante? La poesia è
costitutivamente realistica?
La
poesia è certamente un’esperienza a sé stante, ma in un sé
stante che evidenzia la forza del particolare trascendente: l’atto
determinato (lo specifico atto poetico) è atto certamente singolare,
ma non unico. La non unicità, infatti, è riconnessa
all’impossibilità di isolare l’atto poetico. Con l’atto
poetico, per intenderci, non affiora l’univocità di un
comportamento [7], ma si evidenzia definitivamente quanto questo atto
sia riconducibile ad altri termini comportamentali, che vanno a
rendere ordinario il modo d’essere della poesia. Questa
trascendenza, che è tutt’altro che verticale, evidenzia
definitivamente quanto l’atto poetico non solo non sia isolato, ma
soprattutto non ricada in una sfera extra-corporea ed extra-gestuale.
Così,
l’atto poetico, per costituzione di fondo, è certamente comune a
tutti gli altri atti artistico-creativi, ma, pari merito, richiede
nell’uomo un suo stato d’essere, una sua formazione particolare,
che faccia riferimento ad una specifica esperienza che, pur essendo –
in teoria – un’esperienza di esperienza [8], è comunque
esperienza nuova. In tal modo, allora, gli esiti di questa unicità
trascendente (incorporata), arrivano ad un atteggiamento reale; mai
realistico. Quando, con legittimità, Pessoa può scrivere che il
poeta
è un fingitore
non dà credito alla bugia metamorfica dell’atto poetico, ma induce
a quella sana dose di realtà, istituita nell’esperienza, che si
rintraccia ogniqualvolta è vissuto per davvero l’atto poetico. La
base fittizia – presunta – dell’atto poetico si riversa oltre
l’assunto metafisico dello in
sé
da affermare; assume piuttosto il volto di un in
sé
(nel mondo) per
sé
(nel poeta), che può essere ammesso come bugia solo se si istituisce
una fiducia oggettiva nel mondo o nel proprio sentire. Se questa,
invece, si scontra con una certa dimensione posturale, ciò che
sembra essere la bugia, diviene un ordinario di vissuto. Nell’azione
di finzione del poeta, quindi, si rintracciano caratteristiche
denotative che fanno essere la realtà e la verità aldilà di ogni
realtà e verità. L’aspettativa, quasi sacrale, di ritrovare nella
poesia quel soliloquio profetico e quello sguardo arrembante verso un
mondo che attende d’essere nominato necessariamente, è leggibile
invece quasi come un distrattore, come un distogliente.
Oltre
il sostrato ontologico, che necessariamente compone la relazionalità
uomo-mondo (senza eclissarci subito su un’analisi meramente
ermeneutica), sussiste un motivo di costruzione della verità. Al
punto che il fingimento poetico, più che essere un modo di vivere
ciò che non è vissuto o di esaltare la sola rielaborazione
creativa, rende l’unica realtà e l’unica verità possibili: il
far
essere.
Naturalmente il poeta vive e, vivendo, coglie l’ordinarietà [9].
Tale ordinarietà fa necessariamente da postulante al modo d’essere
del poeta: ne raccoglie le domande ombratili, i calchi di lezione e
reazione che se ne traggono, la modulazione originaria che istituisce
una relazione quotidiana con ogni esperienza, per istituire (in un
passato fondante [10]) quell’impronta incancellabile che, più che
orientare il “contenuto” della poesia, ne fa scaturire la natura
espressiva completa, capace di affermare lo stile di un poeta. Quando
si fa riferimento ad un poeta, nel dettaglio, non si è innanzi, a
differenza di ciò che spesso è rimarcato, ad un prodigio (lo può
essere per il lettore). Si è, piuttosto, dinanzi al comune corpo del
mondo della parola, all’architetto da bottega del linguaggio, al
semplice vivente nella storia complessa – pur sempre ordinaria –
di chi fa della parola il proprio vissuto. La sensibilità poetica,
per giungere al centro della trattazione, non è giustificata dalla
motivazione di una plausibile elezione che faccia sentire la parola
silenziosa del mondo: rappresenta, invece, un modo, seppur condotto
all’estrema potenza, di saper galleggiare e muoversi con destrezza
all’interno di un’esperienza distinta, com’è l’esperienza di
parola.
Nell’atto
poetico, la personalità poetica, così tanto presuntivamente
ostentata o tanto difficoltosamente raggiunta, istituisce un modo
esaustivo di esperienza. La coltivazione sensibile sta proprio
nell’intrinseca capacità avvalorante che costituisce ogni atto
percettivo. È in tal senso, quindi, che la parola, intrinseca al
pensiero [11], istituisce una scrematura che fa emergere il modo
d’espressione personale del poeta. Non è, dunque, nel contenuto o
nel modo proposto, che la poesia riesce ad emergere in tutta la sua
cifra personale e stilistica. È, piuttosto, nel modo di far
essere,
nel librare di un orizzonte di fuoco che, ereditando il modo di
disporsi ad un mondo, lo istituisce, compiendolo. L’inter-soggettività [12] elementare dell’atto poetico, allora, sta
in un atteggiamento ancora più intrinseco della semplice scelta
delle parole o del “tema” trattato. Si iscrive, invece, nel modo
di creare un mondo poetico, di dare energia ad una potenzialità
infinita che, ricombinandosi, rende palese il modo d’essere-del
poeta-al mondo. È qui, dunque, che si canalizza la finzione (con un
senso rinnovato): il poeta non eufemizza. Il poeta costituisce, in
parola sempre adeguata, le molteplicità della vita umana, dando
ampio spazio alla propria personalità, in una memoria fondativa che
fa perpetuamente essere per sé, aldilà del verificarsi di un fatto
in circostanze convenzionalmente ed oggettivamente distinte.
E
la parola? Qual è l’affermazione del suo stato d’essere? Come
può il poeta vivere di sola parola? Lo vedremo nel prossimo
articolo!
__________
NOTE
[1] Come già precisato in Fisiologia dei significanti in poesia -09- (Le Parole di Fedro, 26 gennaio 2025), l’esperienza poetica non è esperienza di un eufemismo e, seppur lo fosse, comunque sarebbe un’esperienza nuova ed inedita rispetto al contesto che ha generato il determinato atto poetico.
[2] Preme sottolineare come vi sia una sostanziale differenza tra linguaggio e lingua. Per linguaggio intendiamo la capacità di ricezione e di formulazione di un senso rispetto ad un qualcosa. Per lingua si intende il complesso potenziale, di cui si avvale il linguaggio, per arrivare ad un suo esito; quindi ad una nuova lingua poetica.
[3] Si sottolinea il modo di pensiero, dato che si dà per scontato che non si tratti più di un cogito onnipotente, ma di un pensiero incarnato, il cui corpo sia la parola (Cfr. Segni, M. Merleau-Ponty, Gallimard, 1960).
[4] Inteso non come il sentire empirico (meramente fisiologico) o come il sentire “romantico” (fascinoso e miracoloso), ma come atto percettivo di disposizione di senso, che caratterizza lo stare-al-mondo del poeta.
[5] Forma, forse, meno metafisica possibile dello ζῷον λόγον ἔχον aristotelico (lett. Animale che ha il linguaggio).
[6] Non a caso, questa sezione di rubrica ha per titolo Greifen poetico: Greifen corporeo. La parola, così come la parola poetica, è un gesto corporeo.
[7] Lo scorso articolo, parlavo di Fundierung relativamente alle macro-funzionalità alle quali il linguaggio è correlato. (vd. Greifen e Zeigen: la stretta conclusiva, Le Parole di Fedro, 26 febbraio 2025)
[8] Esperienza sempre in una chiave fenomenologica.
[9] Da intendersi non come la quotidianità, ma come il naturale rinnovarsi di una
contestualità nella quale è posto / si pone l’uomo.
[10] Come da Stiftung, riprendendo la rilettura estetico-fenomenologica che Merleau-Ponty dà dello stesso in Husserl, come fecondità di un presente esteso. (Cfr. Segni, M. Merleau-Ponty, Gallimard, 1960).
[11] Nel prossimo articolo rifletterò sul legame creativo e fenomenologico tra pensiero e parola.
[12] Mi sembra anche abbastanza assodato che il poeta non sia pienamente e soggettivamente poeta, semplicemente perché la ricostruzione di una valorazione
poetica è da intendersi entro la prima valorazione, che è quella percettiva.
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