(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 41 - Brevi riflessioni sulla poesia "Lo sconosciuto" di Aldo Palazzeschi
Se c'è una declinazione del poetico cara a tutte le stagioni e correnti – è un tema che ricorre in quasi tutti i tratti delle grandi penne del Novecento – è quella che descrive il rapporto con lo sconosciuto, quando non con l'inconoscibile, nel tentativo di dare alla parola l'ossimorica funzione di descrivere ciò che, nel suo fondo, descrivibile non è.
Sconosciuto, indicibile, altrove sono tutte definizioni dell'indefinibile o, quantomeno tracce care al poeta di una consapevolezza diluita, della percezione profonda che esiste sempre un altro da sé i cui contorni e perimetri sono per definizione evanescenti ma, allo stesso tempo, essenziali a chi della parola fa il suo strumento espressivo principe.
Aldo Palazzeschi in una sua celeberrima sua poesia dai tratti lievemente futuristi traccia questa linea sottile con una ineguagliata (e forse ineguagliabile) maestria e ogni volta che mi soffermo su quel testo dal titolo inequivocabile – Lo sconosciuto – non posso non rimarcare l'assoluta originalità del grande poeta fiorentino nell'approcciare un tema che è stato oggetto non solo delle più sottili dissertazioni filosofiche del Novecento ma anche di ispirazione artistica, come sopra si diceva, per le più diverse rappresentazioni artistiche.
La poesia si compone di un serrato dialogo, una sorta di botta e risposta, tra una voce questionante e un'altra che dona risposte lapidarie, secche, quasi al limite dell'irritazione naturale che prova chi deve rispondere ad un interrogatorio.
E l'ambientazione quasi poliziesca del testo poetico dona al lettore una sorta di ansia, di angoscia battente che, nel finale, si concretizza con un effetto di sospensione mirabile.
L'esordio (i primi due versi), a ben vedere, sono già completi in sé di gran parte della poetica dello sconosciuto.
L'hai veduto passare stasera?/L'ho visto.
Lo sconosciuto è una presenza che in primis percepiamo coi sensi, in questo caso con la vista e la cui assenza provoca in noi un vuoto, generativo di domanda.
Come a dire che siamo, in un certo senso, talmente abituati alla convivenza con lo sconosciuto che solo l'idea della sua sparizione dal nostro mondo sensoriale, o extrasensoriale, provoca in noi un ansia di perdita che necessita di rassicurazione.
Ciò che non conosciamo ancora è la linfa del nostro essere umani e vincolati al monito della ricerca della com-prensione.
Solo una volta posta questa domanda primaria sorgono i suoi corollari, che riguardano l'indagine della essenza dello sconosciuto, che nella poesia di Palazzeschi è uno sconosciuto a noi prossimo, laterale, limitrofo, non troppo distante da noi da farci perdere la sua percezione.
In questa stupenda poesia lo sconosciuto è qualcuno (non qualcosa), una presenza antropoformizzata che noi non possiamo evitare di osservare, mentre egli ci mostra tutta la sua indifferenza, troppo preso a scrutare una sorta di abisso in basso, al limine tra cielo e terra.
Anche questo è un elemento del non conosciuto e del non conoscibile che non possiamo ignorare e che il poeta rimarca.
Il suo stare tra cielo e terra, tra abisso e altezze e bellezze di un tramonto che declina, ci parla dell'essenza dell'uomo che questa tensione verticale vive come elemento costitutivo di ogni sua etica e aspirazione.
Così lo sconosciuto resta tale, ma lancia semi e tracce di similarità con ciò che di noi conosciamo come cosa più intima.
Ed è proprio per questo che possiamo percepirne l'evanescente e misteriosa presenza.
Egli si muove sempre solo e vestito di un nero che, in un certo senso abbaglia e affascina, come un buco nero che assorbe ogni nostra voglia di fuga dal reale.
Già, perchè lo sconosciuto, sta e resta, dove la sua natura, la sua estraneità gli impone di restare, sempre sul crinale, senza fare concessioni al sogno, schiavo della sua realtà nel nostro immaginario.
eppure con noi non parla, come una grande Alef nel cielo, resta muto e assorbito dal suo compito di indicarci l'altro da noi come stimolo all'elevazione che è contenuta nella serrata serie di domande che ci poniamo sulla sua presenza.
Benché ansiogeno non possiamo, quasi fosse un magnete non essere attratti dal suo incrociare le nostre vie, senza mai farsi distrarre dal nostro passaggio.
Il finale di poesia poi contiene la domanda principe: dove sta la dimora di ciò che ci è estraneo? Nel lusso di un palazzo, o nella incerta e sobria protezione di una fragile capanna?
E, non è un caso, questa domanda resta senza risposta, quasi a dirci che lo sconosciuto non può che dimorare nello spazio a noi limitrofo e spostarsi assieme e a noi, giusto un passo oltre i nostri confini e argini.
C'è una presenza a poca distanza da noi che chiede di essere percepita ma che non può mai essere completamente descritta ed accolta, perchè sta lì a manifestare il nostro luogo di inciampo.
L'altro da noi è il territorio su cui la nostra crescita si esercita, il luogo della nostra definizione, certo.
Ma, e qui Palazzeschi risulta terribilmente efficace, lo diviene se manifesta, con la sua presenza in un altrove a noi molto prossimo, la nostra incapacità di parola, di comunicazione diretta ed esplicita col suo mondo.
E questo, Palazzeschi ne era evidentemente pienamente cosciente, non può che emergere dal gioco più antico del mondo umano: quello tra domanda e risposta che contempla sempre l'esistenza di domande che restano inevase, ansiogene certo ma, allo stesso tempo, stimolo alla nostra ricerca di completezza, fuori dal sogno consolatorio di una definizione angelicata di sé.
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Lo sconosciuto
di Aldo Palazzeschi
(tratto da Poemi, 1909)
L'hai veduto passare stasera?
L'ho visto.
Lo vedesti ieri sera?
Lo vidi, lo vedo ogni sera.
Ti guarda?
Non guarda da lato,
soltanto egli guarda laggiù
laggiù dove il cielo incomincia
e finisce la terra laggiù
nella riga di luce
che lascia il tramonto.
E dopo il tramonto egli passa.
Solo?
Solo.
Vestito?
Di nero, è sempre vestito di nero.
Ma dove si sosta?
A quale capanna?
A quale palazzo?
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