(Redazione) - Fisiologia dei significanti in poesia - 12 - Ad oggi le teorizzazioni in poesia puntano al…

 
di Giansalvo Pio Fortunato  

Fisiologia dei significanti in poesia implica un dirottamento: se c’è un’estetica, ipoteticamente anche degna del migliore dei manifesti, questa è supportata da una certa descrittività dell’atto poetico che pare scientifica, pur non essendolo. In tal senso, prima di continuare il nostro percorso, credo sia opportuno rimarcare come vi siano due sostanziali modalità di relazionarsi al motivo costitutivo della poesia. La modalità, assolutamente fascinosa, velatamente ermeneutica, scambiata per modalità fenomenologica, e la modalità parzialmente fenomenologica, pur sempre fenomenologica.
Ed è qui che, necessariamente, ci si sofferma su un approccio intellettualistico alla poesia e sull’esigenza di teorizzazioni, rilevanti per una storia ed una vita della poesia stessa. Faccio notare, come piccolo intra-inciso, che questo specifico appuntamento mensile vuole necessariamente rallentare i ritmi di prosecuzione descrittiva attorno all’atto poetico, almeno per due motivi principali: 
  1. chiarire che ruolo abbia la teorizzazione in poesia, soprattutto se si tratta di una teorizzazione “scientifica”
  2. collocare Fisiologia dei significanti in poesia, con estrema umiltà, entro questi tentativi di teorizzazione attorno alla poesia.
Quando si rivela, infatti, l’atmosfera che avvolge la poesia contemporanea si è quasi bruciati dai due estremi polari: vuoto, in termini di consapevolezza, e sovraffollamento, in termini di prodotto poetico. Che i poeti di oggi siano, infatti, per la stragrande maggioranza degli indemoniati per il gustoso dàimon del prodigio poetico, è un dato di fatto. Questa condizione, ovviamente, li pone in una luce di minorità intellettuale non in virtù dell’atto poetico che, adeguatamente riconosciuto, riuscirebbe a far emergere con totale franchezza elementi salienti (a mò di croce e delizia) del linguaggio; ma in virtù della superba inconsapevolezza che, molto spesso, o nella non risposta o nel luogo comune li conduce a banalizzare l’atto poetico. 
Proprio in virtù di questa elezione dal feto materno, che può essere giustificata solo qualora si ritrovi una reale postura poetica ed un vissuto esperienziale solido in poesia, si è inabissati da numerosi testi in versi sciolti, con conseguente solidarietà di riconoscimento tra richiamati dalla stessa voce dello Spirito.
D’altra parte, soprattutto nelle nuove generazioni poetiche, c’è un certo fervore intellettualistico che, a mio parere, rappresenta certamente un filtro positivissimo per una necessaria discriminazione entro la complessità degli autentici atti poetici. 
Quando parlo di un certo intellettualismo non mi riferisco alla dose di elitarismo, che caratterizza molte delle correnti della poesia teorica contemporanea, né tantomeno declino l’intellettualismo come controparte del puro e semplice atto poetico (quasi come se la poesia non fosse un atto intellettivo: spero che, dopo almeno undici interventi realizzati in rubrica, qualche ipotetico mio lettore abbia almeno superato questo scoglio); mi richiamo, piuttosto, a quell’impegno procace che distacchi praticamente l’assimilazione del prodotto poetico dal marasma dei multiformi prodotti giunti a noi, ogni giorno. 
È per questo che identifico con intellettualismo sia una profonda ricerca poetica personale, che faccia prefigurare nuove realizzazioni, nuovi spiragli, mondi abbastanza incontaminati e totalmente rivoluzionari, alla luce di una contemporaneità che corre veloce. Sia la volontà di fondare questa ricerca in un dialogo tra voci che, quasi incantate innanzi al motivo pieno e spirituale della poesia, desiderino attraversare questa boscaglia oltre che con la fettuccia di raso agli occhi, anche con la lanterna sul capo, nella ricerca di rientranze e sporgenze. 
Per i motivi sopracitati, allora, credo sia già abbastanza immediato ed intuitivo capire quanto sia cruciale un’azione teorizzatrice in poesia, un impegno intellettuale che, come sopra declinato, non si inaridisce nella logicizzazione formalistica della poesia (fior fior di filosofi e di logici hanno rinunciato a questa possibilità), ma fomenta quel luogo immaginifico, facendolo sopravanzare, mostrandone praticamente il prodigio. Il nodo cruciale, allora, è capire in quali termini e, quindi, secondo quali forme una teorizzazione in poesia sia giusta ed esatta. Se la poesia, infatti, è sublimazione del linguaggio, essa sviluppa anche degli esiti alquanto distinti rispetto al linguaggio naturale, pur rimanendo (a differenza del linguaggio matematico) nello stesso dominio ontologico. Il che implica, allora, quanto una certa filosofia del linguaggio, dal tratto altamente epistemico (come sosterebbe il buon/mal Heidegger – a seconda dei punti di vista -), non si confà ad un’indagine radicale sullo scheletro poetico, non disponendo più che dei mezzi opportuni, della prospettiva complessiva. Se teorizzazione è possibile, allora, essa deve avvenire tramite un ripensamento fenomenologico. Scelta, questa, che è stata abbracciata, seppur in diverse forme, da buona parte della poesia teorica contemporanea. Una scelta, nel dettaglio, assolutamente naturale, quasi immediata [1]. In questa operazione si innesta, tuttavia, il tallone d’Achille della vicenda: fenomenologico, in che senso? 
Lungi da me far riferimento ad un’inevitabile conoscenza del patrimonio di ricerca fenomenologico, pur ritenendo non faccia male disporsi in questa visuale del mondo. Anche perché, come preciso in Nota 1, il fenomenologico qui inteso non è asserragliato entro il suo complesso contenutistico, ma, in una descrizione che ormai mi ossessiona, è librato nella sua postura. In quanto postura, ovviamente, esso fa della trasversalità il suo elemento portante e trainante. Il problema, allora, è l’approccio. 
Nella poesia  teorica contemporanea c’è un attitudine alla dissimulazione. Una dissimulazione, certamente, non razionale, non voluta, non augurata, non composita. Ma, comunque, una dissimulazione verificata. È così che si hanno contenuti prettamente ermeneutici che puntano ad una fenomenologia che
sussiste – certamente – ma con un certo residuale.
Compio, a mio parere, un paragone abbastanza comprensibile: si tratta, quasi negli stessi termini, della “separazione” tra fenomenologia ed ermeneutica, tra approccio husserliano ed approccio heideggeriano. Il perché di questo paragone lo individuo subito: ambo gli approcci hanno avuto ampio e largo seguito e nessuno dei due approcci può vantare di avere preminenza sull’altro, malgrado l’approccio husserliano (rigorosamente fenomenologico) paghi in termini di seducibilità e l’approccio heideggeriano (rigorosamente ermeneutico) paghi in termini di natali, essendo resa iperbolica della ricerca fenomenologica. 
Così si guarda ad Heidegger, puntando ad Husserl. Così si guarda all’ermeneutica, puntando alla fenomenologia. Non di rado, allora, anche in poesia teorica contemporanea, in maniera talvolta anche abbastanza esplicita, vedo guardare ad un innesto ermeneutico della poesia, puntando alla fenomenologia della poesia. Non si tratta, in tal senso, di condannare questi intenti dissimulativi che, a mio parere, forniscono potenzialmente degli esiti meravigliosi. Pensare ad un affrancamento dalla lessicalizzazione corrente e dall’archetipizzazione corrente. Pensare al multidisciplinare che radicalizza esperienze nuove, a-semiche, nomadiche, semiogenetiche, credo sia assolutamente straordinario, in quanto approccio di una poesia d’avant-guard, d’una poesia preveggente. 
Il problema si pone, tuttavia, nei modi teorizzatori. Riferiamoci ancora ai due nemici/amici Husserl ed Heidegger. L’insuccesso della riduzione fenomenologica (come fa notare saggiamente Merleau-Ponty [2]) ne è il suo inevitabile trionfo, la sua innegabile consacrazione. Husserl, infatti, proprio non potendo giungere ad uno stato di pura conoscenza intuitiva, fondamentalmente eidetica, afferma l’esito di una fenomenologia rigorosamente inter-soggettiva e di una fenomenologia valida per se stessa. Heidegger, ottenendo una Kehre (svolta) con conseguente radicale tranciato rispetto alla sua maternità di pensiero, conduce ad una comprensione allusiva e seduttiva del contesto di ri-indagine dell’Essere, con tutte le ombre che naturalmente si pongono. 
Medesimo scenario credo si stia compiendo entro questi straordinari tentativi (straordinari: è giusto che io lo ribadisca) che, nella volontà re-ontologizzante della poesia, danno la stessa lucente ombra della Lichtung, cogliendo, a mio parere, delle strade tremanti o, meglio ancora, irregolari. La sperimentazione poetica, dunque, si rivela di straordinaria portata, di vigorosa fattura, di visionarietà assolutamente alternativa. C’è, per intenderci, la totalità di un nuovo mondo poetico operante che pullula, sfascia, ri-costituisce, lascia il segno, alimenta. Tuttavia, come il problema dell’Essere colto nella sua originalità, ho quasi l’impressione che questi tentavi non vogliano cogliere lo scheletrico. Non vogliono cogliere, in che senso?
Non è una riluttanza od un’inadeguatezza al nuovo moto poetico messo in atto. 
Credo, proprio come per l’ermeneutica (non a caso vi è un’origine etimologica comune), si tratti di una scelta ontologica deliberata che, nell’edificazione di un mondo nuovo, si ponga in delle neo-formazioni alquanto affascinanti ed enigmatiche allo stesso tempo. C’è un nuovo mondo poetico che sta nascendo, fuor d’ogni dubbio.
Eppure questo nuovo mondo poetico è in un orizzonte velato. Si cela la possibilità di mostrarsi per intero, in tutta la sua pienezza magnificamente dissolvente ed irrisoluta. 
Quando si lavora alla teorizzazione, infatti, si cerca di colpire allo stesso modo della poesia. È, senza dubbio, ermeneutica: tutto è poesia. Tutto è archetipo ridisegnato, senza dubbio. Ma, come fu per Heidegger, lo spezzare i muri della radura, può condurre ad una radura più grande. Si sta costruendo, infatti, un denso scolarismo di pensiero poetante, certamente. Uno scolarismo modellistico, tuttavia. Modellistico: non strettamente per la spersonalizzazione capitalistico-ideologica dei nostri tempi (quest’ultima è soprattutto vigente tra la poesia non d’avant-guard). Un modellistico, piuttosto, figlio dell’aver mancato la nitidezza di vedute. Se c’è uno svisceramento della carne della poesia, se bisogna scendere nell’intimo della poesia (intimo inteso quasi come l’avere un rapporto sessuale-chiasmatico), è altrettanto vero che non ci si possa fermare all’intercapedine, generando un’affascinante meta-poesia, che, oltre al fascino e al frizzante, lascia quell’amaro di una perenne approssimazione ad un abbordaggio. Se si è rivoluzionari, non lo si è semplicemente con l’egida della poesia, ma contro la poesia stessa, chiamandola per nome cognome ed indirizzo.
C’è certamente nei prodigiosi capiscuola la contezza del movimento innescato. E nelle altre voci?
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Note:
[1] Il fenomenologico a cui faccio riferimento non è già eclissato o addensato sul contenuto positivo (non la fenomenologia come corrente filosofica). Rappresenta, piuttosto, quella traccia scovabile in ogni tentativo di espressione e di relazione col mondo.
[2] M.Merlau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Gallimard, 1950.
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