(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 42 - Giochiamo con la poesia della "prima parola"

 
di Sergio Daniele Donati

Se si accetta un gioco – e le sue regole – quelle stesse regole divengono il campo giochi e allo stesso tempo l'oggetto del gioco
Per questo, prima di proporvi di giocare con me oggi, devo esplicitare per voi alcune regole, perché possiate accettare di sedervi al tavolo con me, o passare oltre.
Eccole:
  1. Questo gioco si fonda su un assunto non dimostrabile, anzi filologicamente falso, ovvero che la prima parola della narrazione biblica della creazione (בראשית - Bereshit - comunemente tradotto con all'inizio, o al cominciamento) sia la prima parola dell'uomo. L'assunto è doppiamente falso: da un punto di vista religioso perché  per chi è credente la Torah è parola di D.o, non dell'Uomo; da un punto di vista filologico perché si ha ben presente che alcuni testi indiani in Sancrito, ad esempio, possono ben datarsi in periodo antecedente a quello dell'elaborazione del libro della Genesi e la scrittura non è cosa che abbia inventato il popolo ebraico, esistendone di più antiche. Qui – su questo tavolo da gioco – "prima parola" quindi significa, "il primo detto sul primo attimo della creazione dell'universo in cui muoviamo i nostri passi".
  2. Questo gioco è un gioco, e state per sedervi al tavolo con un giocatore di medio-basso livello. Non sempre si gioca a biliardo con Lo Scuro, a volte si va semplicemente al bar con gli amici, per bere birra e scherzare mentre si colpiscono bocce sul tavolo. Allo stesso modo siate clementi se non mostrerò le competenze di Maimonide o dei grandi pensatori che su quella parola hanno speso milioni di riflessioni e scritto migliaia di pagine.
  3. Il corollario principale di questa seconda regola riguarda me. Non cercherò di indorarvi la pillola con citazioni colte a sostegno della mia tesi su quella parola, per il semplice motivo che stiamo giocando e non abbiamo bisogno di giustificare il nostro gioco con nessuno.
  4. Vince questo gioco chi, alla sua conclusione, saprà cogliere quanto una parola sola, la prima, possa essere portatrice di poesia.

COMINCIAMO
La parola Bereshit (in ebraico, lingua che si legge da destra verso sinistra, בראשית) inizia con la lettera Bet (ב) che è la seconda lettera, dopo la Alef (א).
La Alef (א) è lettera muta, afona; una specie di presenza altera che silenziosamente guida i nostri pensieri, e compare nella prima parola come terza lettera. Lo vedete?
Alcuni spiegano la ragione per la quale la Trascendenza avrebbe deciso di iniziare la narrazione della creazione col fatto che la Bet (ב) è iniziale di Berachà (benedizione, santificazione). 

Con la Prima Parola, quindi, il Creatore avrebbe inteso santificare non solo il creato ma l'idea di "Parola" stessa. 
In altre parole avrebbe messo, già dalla prima lettera, le basi etiche di ogni dire e scrittura che anche l'uomo dovrebbe sforzarsi, in una sorta di imitatio dei, di seguire. 

Traduzione? Subito, eccola

Che il primo dire sia un dire benedetto e benedicente, creativo, quindi etimologicamente poetico.
Quella Bet iniziale manifesterebbe la potenzialità creativa della parola che, certo, si appoggia al silenzio della lettera che la precede nell'ordine, la Alef, ma che manifesta allo stesso tempo la possibilità di dire del sacro, anche quello che pare indicibile, se dell'espressione si conoscono i limiti costitutivi.

Poetico e ipotetico, a mio avviso. Che la parola crei il bene, divenendo bene-dizione, è dunque la prima scelta etica che la trascendenza, che ben sa del nostro essere Kof (scimmie) imitatrici, ci spinge a seguire. 
La prima cosa da benedire, sembra dirci quella sola prima lettera, è il dono della parola che crea, la poesia del creato.

A me basterebbe già questo, ma so che voi, giustamente, chiedete di più e non vi lasciate convincere da questa tesi per dimostrare che la prima parola della narrazione concerne tanto la poesia, intesa come un "facere", creare. 
E allora continuiamo.

La seconda lettera della prima parola, lo vedete, è la Resh (ר) il cui nome in ebraico significa sia capo/testa (rosh) che principio (ad esempio un principio morale) che inizio (primo, ad esempio si dice Rishon e ha come radice il Rosh).

Ah bene, guarda un po'... la lettera Resh ribadisce un'idea cui forse già la prima lettera accennava. 
Ogni inizio nel tempo contiene un principio etico... a voi (a noi) scoprire quale. 

Però oggi mi sento buono e voglio darvi un input simpatico... poi vedete voi cosa farne. 
Le prime due lettere della prima parola, se lette di seguito, compongono la parola Bar (figlio).
Avrete tutti sentito parlare della maggiorità religiosa per l'ebraismo la cui cerimonia si chiama appunto Bar Mitzvà (il figlio del precetto).
I principi etici della Resh e la benedizione della Bet, dunque, si fondono per creare cosa?
Una parola dedicata e delicata, mi verrebbe da dire. 
Le prime due lettere assieme ci parlano di un altro principio fondamentale del pensiero ebraico: quello della trasmissione dei saperi.

Nasciamo debitori dei nostri figli – dice la tradizione – e alle future generazioni sono dedicati i nostri sforzi creativi e di liberazione nel creato (è questa la funzione dell'uomo) di scintille divine. 
Ma a ben vedere, visto che di parola poetica stiamo parlando, Bar ci dice anche di un'altra importante visione che proprio della Parola ci parla.

Un figlio, posto così in inizio di narrazione, ci dice che ogni parola è per sue stessa essenza eterodiretta e, soprattutto,  non è mai completamente possesso del suo autore. 
Se D.o dedica la benedizione del suo creato ai figli, chi siamo noi per dirci proprietari delle nostre stesse parole o, ancora più grave, della Parola?

Non ci vedete ancora abbastanza nessi con le più antiche disquisizioni sulla parola poetica?
Ah lettori dalla dura cervice, mi obbligate a continuare allora.
Andiamo al centro della parola. Cosa troviamo?

אש
fuoco

Attenti a non scottarvi con troppa poesia ma, all'esatto centro della prima parola c'è un fuoco che, visto il tema che stiamo affrontando, non possiamo non definire sacro. 
E quel fuoco poggia sul silenzio austero della Alef. 

Ecco la comparsa, finalmente, della prima lettera dello Alef-Bet nella narrazione. E compare a sostenere la sacralità del fuoco della prima parola, badate bene, non della creazione in sé, ma proprio della narrazione della creazione stessa.
La prima parola che, creando, D.o pronuncia – lo sappiamo tutti – è Or che si scriverebbe con Alef e Resh (due lettere in esame sopra nel senso contrario di lettura - con l'aggiunta semmai di una Vav, in mera funzione però di allungamento vocalico).

Ogni parola, ogni narrazione, dunque, si basa su un fuoco che è allo stesso tempo simbolo e portatore di sacralità, di una sacralità dedicata a ciò che per eccellenza è altro da noi, i nostri stessi figli. 
E proprio la trasmissione della narrazione permette di mantenere vivo il fuoco della creazione. 

Beh qui, sono certo lo pensiate anche voi, siamo di fronte a una indicazione precisa, non solo a proposito della mistica della Creazione dell'Universo ma anche, per reductio terminis evidente, sulla relazione che, in quanto creature di quello stesso progetto, noi esseri umani dovremmo avere della parola. 

La prima parola ci narra di etica e cura, di trasmissione e etero-direzione e lo fa con la delicatezza del celato, nascondendosi ritrosa, come ogni "principio", sia esso etico o inteso temporalmente come "inizio", dovrebbe fare. 

La prima parola, che pur parla di un presente/passato è parola programmatica e rivolta al futuro, al dono della dinamica della traditio (consegna in latino) di padre in figlio di una narrazione che, pur non mutando nei millenni nel testo di una virgola, ha mostrato la possibilità di migliaia di interpretazioni possibili. 
E penso che l'essere sorretta da un non detto, dal silenzio austero della Alef, sia il segno che ci ricorda il binomio indissolubile tra il dicibile e l'indicibile, tra sorgente sotterranea e fiume in piena.

Vi ho convinto? Avete vinto assieme a me?
Allora festeggiamo, perché oggi una vocina mi dice che forse, nel futuro dei nostri figli, vi parlerò ancora di "paroline sacre" e della portata che possono avere per tutti, anche se atei.
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Commenti

  1. Siamo, anzi nasciamo debitori dei nostri figli. È così. Sento che il mio fare il genitore manca di qualcosa che devo ancora completare . Ho fatto l'insegnante, amando i miei studenti, anche verso di loro mi sentivo in debito..

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  2. Grazie..🥰

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