(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 05 - La poesia di Giovanni Pontano
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di Gianni Antonio Palumbo |
Giovanni Gioviano Pontano è figura chiave dell’Umanesimo aragonese e della letteratura umanistica. Fu segretario di Ferrante I d’Aragona e animatore, dopo Antonio Beccadelli detto il Panormita, dell’Accademia che da lui assunse il nome. La sua poesia, come evidenzia Sebastiano Valerio in Pontano lirico tra l’amore coniugale e la seduzione (contributo pubblicato in Il discorso della seduzione dall’antichità all’età contemporanea, a cura di A. Di Benedetto, A.R. Daniele e T. Ragno, UniorPress, Napoli 2022), “ha ricevuto negli ultimi anni nuovi studi e rinnovate interpretazioni, eppure, nel panorama della storia della lirica italiana, cerca ancora una consacrazione canonica, anche in ragione dello strumento linguistico, il latino, che il poeta aragonese adoperò in maniera esclusiva e originale, in un secolo, il XV, nel quale il bilinguismo della nostra letteratura dovrebbe essere considerato con maggiore attenzione”.
Esploreremo,
in questa sede, non il cospicuo versante della produzione
trattatistica e dialogica, né quello della storiografia, che
recentemente, dopo l’edizione critica del De
bello Neapolitano curata
da Giuseppe Germano, Antonietta Iacono e Francesco Senatore, si è
arricchito del bel volume di Francesco Tateo La
guerra nel regno di Napoli di Giovanni Pontano,
recante “traduzione, saggio introduttivo e note, con il testo del
De
bello Neapolitano,
Napoli 1509” (Roma nel Rinascimento, 2021). Offriremo piuttosto
alcuni spunti sulla sua poesia, che si segnala per l’espressività
con cui il Nostro ha piegato il latino a dar voce al lessico della
tenerezza e dell’affettività, ma anche a costruire corposi e
materici quadri come quello dell’egloga Lepidina,
con la celebrazione della bellezza di Napoli e del territorio
circostante. Pontano era umbro; nella Lepidina,
infatti, attraverso le parole della ninfa Antiniana, si definirà
pastor
advena (“pastore
straniero”), ma Napoli divenne una delle leve del suo canto.
In
questo breve intervento, rifletteremo su alcuni suoi testi,
precisando che il suo corpus
poetico confluì nell’edizione curata da Pietro Summonte nel 1505.
In primo luogo, ci piace fare riferimento al De
amore coniugali,
raccolta che è dedicata alla moglie Adriana Sassone – cantata come
Ariadna (sarà ricordata anche nell’Arcadia
di
Sannazaro) – e, di fatto, all’intero microcosmo familiare. Come
ha evidenziato Liliana Monti Sabia, questa raccolta s’innesta con
originalità “nella storia dell’elegia latina”, perché vengono
destinati a una moglie accenti che generalmente erano riservati alla
figura dell’amante (Un
profilo moderno e due Vitae
antiche
di Giovanni Pontano,
Accademia Pontaniana, 1998). Non dimentichiamo, poi, che anche la
letteratura italiana nasce sotto l’egida dell’amor cortese, e che
Andrea Cappellano, nel trattato De
amore,
sosteneva, prima di rivalutare le nozze, che non potesse darsi amor
fino
nel vincolo coniugale. Nel matrimonio gli abbracciamenti tra coniugi
erano scontati e non v’era la trepidazione (e a dirla tutta nemmeno
l’elezione, dato che si trattava prevalentemente di meri contatti)
propria di quello speciale legame, che era appunto il fin’
amor.
Spiccano
nella raccolta i versi dedicati, in I 4, a vincere le remore della
donna, frutto della pudicitia,
e a cedere ai piaceri leciti nell’‘unizione’ tra sposi. Pontano
recuperava, a tal proposito, la topica del carpe
diem:
“Carpe diem, et Genii munera redde toro / Hoc tua te vel forma
monet, vel coniugis ardor / Hoc lex coniugii vinclaque amoris habent”
(“cogli il momento ed offri al talamo i debiti doni. / la tua
bellezza o l’ardore dello sposo ti esortano a farlo, / e questa la
legge nuziale, il vincolo d’amore”). Per il De
amore coniugali,
ci avvarremo delle belle traduzioni di Francesco Tateo nel volume
Carmi
scelti e frammenti con traduzione italiana
(Edizioni del Rosone, Foggia 2018), libro che reca anche
un’utilissima Bibliografia
delle traduzioni da Pontano poeta
di Claudia Corfiati.
Punto
più alto dell’opera è forse dato dalle Neniae
dedicate
al figlio Lucio. Qui Pontano raggiunge l’apice dell’espressività,
in particolar modo nella famosissima Naenia
prima ad somnum provocandum (sul
tema generale, segnaliamo il volume di Stefano Carrai Ad
Somnum. L’invocazione al sonno nella lirica italiana,
Antenore, Roma 1990). è
un
vero e proprio delizioso scenario di seduzione quello che lo
scrittore pennella; un atto di cui protagonista è il piccolo Lucio,
i cui occhi, anzi “occhietti”, hanno un potenziale di fascino
irresistibile, tanto che il Sonno ben invocato non potrà tardare. Il
latino pontaniano acquisisce una forza comunicativa altissima, anche
grazie all’uso di diminutivi e vezzeggiativi; tutto è conforme
alla tenera età del fanciullo, in una dimensione in cui ironia e
tenerezza si esprimono in un amebeo perfettamente dosato. Il
canto-incantesimo di Lucio finisce col richiamare quello della Sirena
e il Sonno non potrà resistere; in realtà, però, quello che ha
luogo è il canto della figura genitoriale (o della nutrice?) che,
con suono dolce e cadenzato, cerca di addormentare il fanciullo. La
dimensione è duplice: Lucio seduce il Sonno e il/la neniante seduce
Lucio. Si susseguono versi deliziosi come questo: “Lucius vocat in
thalamos te, blandule somne, / Somnule dulcicule, blandule somnicule”
(“Il piccol Lucio ti vuole nel letto, dolcissimo sonno, / bel sonno
delizioso, piacevol sonnellino”). Ogni traduttore ha dato prova di
abilità nella resa di questo distico; ci piace ricordare anche la
soluzione di Liliana Monti Sabia per il secondo verso: “sonnerello
zuccherino, tenerello sonnellino” (mi riferisco al volume Giovanni
Gioviano Pontano. Poesie latine,
tomo I, a cura di Liliana Monti Sabia, con introduzione di Francesco
Arnaldo, Einaudi, Torino 1977).
Tutta
la sezione delle Naeniae
è
bellissima e restituisce con arguzia la poesia della famiglia e
dell’infanzia. Notevole è la Nenia
quarta nugatoria,
che ci introduce nel contesto giocoso dei rapporti tra la nutrice e
il bambino. Quest’ultimo è stato un po’ intemperante in abbracci
e ghiotti morsi al seno della balia, e così la donna finge di voler
riservare baci e seno a un bimbo immaginario, più garbato (e quindi
antipaticissimo), di nome Antinoo. “Cui pectus, mollemque sinum,
tenerasque papillas, / Amplexusque meos? Antinoo, Antinoo”.
L’effetto è duplice e induce al sorriso, perché, come ha
evidenziato Francesco Tateo, il nome suscita “un effetto scherzoso
(…) in punta al verso” e tra l’altro richiama il pretendente di
Penelope par
excellence.
L’immaginaria disputa fanciullesca è proiettata così in uno
scenario mitico, prima di concludersi con la corsa di Lucio in grembo
e alla donna: “S’è avvolto assieme al collo e assieme i baci
carpisce, / non come un bricconcello ma come un bravo bambino”
(citiamo sempre la traduzione di Tateo). Tutto si colora di una
grazia ineffabile, dai giochi con la cagnetta alla naenia
nugatoria della
madre, sino ad arrivare alle Coccole
del padre.
Testi
interessantissimi sono anche le Eclogae.
Tra tutte ne prediligiamo due. Nella Lepidina,
il personaggio eponimo e il suo sposo Macrone, le due figure
dialoganti – cui subentrano di volta in volta anche altri
personaggi – assistono al corteo per celebrare le nozze tra la dea
Partenope e il fiume Sebeto. Napoli diviene così protagonista, nella
sua malia fascinatoria. Lepidina stessa teme il potere di seduzione
della dea, che potrebbe incantare il suo sposo; ha dalla sua i
rituali insegnati dalla madre per scongiurare quel pericolo e tenere
a sé legato al marito, eppure gli dice: “ma non guardar con gli
occhi obliqui, mia luce, la donna, / specie se il piede nudo con fare
languido mostra; / allor tende le reti, prepara le insidie ed il
fuoco” (ancora dalla traduzione di Tateo). L’egloga è scandita
da sette cortei, con carmi epitalami e contrasti di catulliana
memoria tra cori maschili e femminili, e inoltre con processioni di
divinità e ninfe, rappresentative delle terre del contado e delle
isole vicine, tutte e tutti intenti a portare doni alla coppia. La
Pompa
septima ha
come corifea Antiniana, personificazione della villa di Pontano sulla
collina del Vomero. La ninfa, in una profezia relativa agli sviluppi
della poesia bucolica in terra campana, annoderà al canto virgiliano
la poesia di Pontano e di Sannazaro. L’egloga vive di una serie di
quadretti perfetti, un trionfo della sensualità e della
sensorialità, per esempio nell’aleggiare di profumi quali quello
del serpillo. La lingua si piega anche ad accogliere il portato dei
dialetti locali, come, all’apparizione di Pausilipe, il riferimento
ai praecoqua
cari all’Italia meridionale. E che dire di “Ulmia et intortis
tantum laudata torallis!”, cioè di “Ulmia, famosa per le sue
pizze, celebre per le sue gallette, tanto lodata per i suoi taralli
ritorti” (traduzione di Liliana Monti Sabia).
Concludiamo
quest’intervento, in cui tanto ancora si potrebbe dire, con
l’egloga Quinquennius.
Locutori sono il piccolo protagonista dell’età di cinque anni,
dietro cui si cela Lucio, e la madre Pelvina. Monti Sabia l’ha
definito un “delizioso mimo domestico” e così è. Al centro
della vicenda la figura di un Orco claudicante (l’Orco compare
anche nell’incipit della Lepidina),
uno dei tanti mostri di cui mamme, nonne, padri si servivano per
atterrire e al contempo divertire, con il fascino dell’orrore e
dell’avventura, i loro figli. Mentre Quinquennius lo vede avanzare
con fare minaccioso “ac dente cruentus”, Pelvina-Adriana si serve
di questa figura ancestrale per spingere il piccolo a compiere i suoi
doveri. “Fuge, saeve; quid audes / in puerum? Fuge, claude. Meus
iam nocte quiescit, / inque diem queritur nihil hic meus. I, pete
tesqua / atque famem solare faba ingluviemque lupino” (Traduce in
prosa Monti Sabia, che seguiremo per il Quinquennius:
“Vattene via, cattivo. Che vuoi fare al mio piccino? Fila via,
sciancato. Il mio bambino, ormai, di notte dorme e di giorno non fa
mai i capricci, questo mio bambino. Via, vattene nel bosco e la tua
fame saziala con le fave e il gozzo riempitelo di lupini”).
L’egloga procede dunque su un duplice binario; la madre prospetta i
due volti dell’Orco, gioviale, sorridente e generoso elargitore di
doni per i bambini che mantengono una retta condotta, ma famelico e
implacabile verso i monelli. Attraverso questa icona cerca di
veicolare dunque un vero e proprio codice comportamentale: assumere,
in caso di malattia, l’assenzio edulcorato dal miele di poetica
memoria; coricarsi presto ed effettivamente addormentarsi (doveva
essere un po’ insonne questo fanciullo, per rimarcarlo così
spesso); non dare risposte sgarbate alla madre o alla balia; assumere
i semi di cavolo contro l’enuresi notturna. Spassoso il passo in
cui il bambino invita la madre a finirla di prendersela con lui,
perché la colpa è del Sonno. Descrive allora i sogni che
accompagnano la sua incontinenza di notte, e che, nella fantasia
puerile, sembrano addirittura scatenarla, in un’inversione del
normale rapporto causa-effetto. Lucio, peraltro, si dimostra molto
furbo, perché sorvola sulle prescrizioni comportamentali della mamma
e si sofferma sui doni dell’Orco, alzando sistematicamente la
posta. “E mi darebbe delle fragole, e mi darebbe un panierino di
ciliegie mature, se domani vado a scuola coi miei compagni?” Il
furbo quinquenne, insomma, cerca di contrattare con la madre il
premio stabilito per l’adempimento dei suoi doveri.
è
triste,
alla luce di questi quadri così brulicanti di vita, accostarsi ai
Tumuli
in
memoria della moglie Adriana e del figlio Lucio. Così come un’altra
figlia, Lucia, entrambi gli premorirono: la prima a quarantasei anni
e il secondo a ventinove, ingannato da un tragico errore che lo
indusse a bere un decotto della venefica laureola. “Povero vecchio,
sì come un tronco arido, / che aggredito da un lento fuoco struggesi
/ in un campo piantato, e fassi cenere, / e a poco a poco a luce
spenta fumiga, / senza splendor, tu resterai struggendoti” (trad.
di Tateo, 2018). Ci è caro il Pontano che piange il colonulus,
il suo “piccolo giardiniere” (si sa che i figli anche a
trent’anni, magari anche divenuti genitori, restano piccoli agli
occhi di padri e madri), ma ancor più amiamo quello che trasferiva
il mondo negli ocelli
(occhietti)
di un fanciullo “vispo” e mellitus,
facendone innamorare il Sonno… e noi.
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