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Stanze (SAMECH - AYIN - PEI - TZADE - KOF)

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  SAMECH (ס) Null'altro da dire: esistono voci lontane e proteggono e custodiscono la parola ancora inespressa di una voce bambina. La prima parola d'un infante è un sibilo di accoglimento di un percorso infinito. AYIN (ע) Mi chiedi cosa sia una visione  e dove si debba poggiare lo sguardo quando un vento freddo scivola sui pori della pelle? Sull'orizzonte sotto i nostri piedi , rispondo. E quando il vento si placa, verso la luce lontana  di stelle già morte. PEI (פ) Un dente deve cadere per passare dalla negazione del creato al suo abbraccio. La parola si deve far chiara per permettere l'infinita interpretazione, eppure, già lo dissi, il mio maestro era balbuziente e sorrideva tra i suoi denti ingialliti al compito sacro della trasmissione. TZADE (צ) E non c'è giusto fuori dalla testimonianza. Né l'etica si poggia su un'intuizione afona. Il Giusto raddrizza la schiena prima di parlare e torna curvo nel silenzio. Chi lo ascolta raddrizza la schiena  di fron

Fenice

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Non credere che ciò che cede e si cela e diviene evanescente si dissolva nelle terre dell'oblio. Fenice eterna, cerca  una nuova forma per risorgere. E se provi poi,  ammirato dalla sua trasformazione, ad accarezzargli le piume l'ustione sul tuo palmo sia testimonianza di quando hai cessato di credere nelle sue potenzialità. Oggi mi manca una voce, una sola, eppure mille. Le cerco tra le mie lettere e tace non solo la Alef, come è solita fare dalla notte dei tempi, ma anche la Tzade, canterina. Ha paura che il suo messaggio di giustizia oggi non sia adatto per un uomo con le ossa rotte. Si corica al mio fianco, come sempre, la Nun e mi canta una nenia antica e di miele; una nenia, la sua, di sole tre parole: Tu sei l'Uomo. Sergio Daniele Donati - inedito 2022 Foto di Noelle Oszwald

Tzade (in tre versi)

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  Tzade di Sergio Daniele Donati Del Giusto commuove sempre il passo ignaro di ritorno verso la sua bottega di calzolaio.

Tzade (davanti al Giusto)

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L'albero non nega né acconsente. Proclama la sua pienezza dal silenzio delle radici. E tace il canto nell'ora che prepara i sogni. Mi chiedevo dove fosse la tua voce, poi ho visto la corteccia. Era la mia. Sudori di resina ne dicevano il passato. Io non sono albero, ma abbocco, come pesce all'amo, mentre danzano i simboli. La parola è niente. La parola è inciampo, balbuziente, è incanto di fattucchiera per una mente semplice. E io ne sono schiavo; per questo non porto foglie né dono frutti