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Visualizzazione dei post con l'etichetta Scritture in libertà

Tra jazz e perdono di sè stessi (piccole parole domenicali)

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  Foto di  Patrick Fore  su  Unsplash Quando si rompe un’alleanza o si vive un lutto o si rompe qualcosa che poggiava sullo sguardo reciproco, sull’accoglimento delle altrui fragilità e tenerezze, sull’infatuazione per le incapacità dell’altro, di dire, fare, lettera e testamento, il silenzio che si crea – quello spazio vuoto ormai privato di comunicazione - non è più Dom , l’austero silenzio d’attesa che precede ogni solenne creazione, anche e soprattutto quella divina. Ma non è nemmeno Demam ah il silenzio sottile, quasi una voce impercettibile, declinata al femminile, che indica la via a coloro che hanno chiuso le orecchie e lo sguardo sulle vertiginose altezze dell’esistenza. Forse è Lishtok (infinito verbale) che indica una sorta di silenzioso zittimento e sbigottimento, come quello che provò Aronne – proprio lui, l’oratore, l’uomo della parola, fratello e consigliere di Mosè, il balbuziente – quando la volontà divina gli incenerì davanti agli occhi i due figli. Ci si tacita per

A Glenn (scrittura spontanea in controtempo - dedicata a Glenn Gould) di Sergio Daniele Donati

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  poesia esile/poesia esule E dimmi tu quale sia il segreto dell'appoggio di un dito  all'armonia del silenzio.  Io mi copro di sudori e non cala mai  la mia antica stortura.                     esistere è in fondo un baco            e dal buco nero dell'illusione           che esista una verità protetta            dal guscio del proprio nome           le parole escono           come un biascicare  parole d'ubriaco,           un trascinare ricordi di ciabatte           in corridoi d'ospedali dove i muri           trasudavano resine di dolore  giallastro           e colavano  nelle notturne           grida  dei malati d' infanzie mai vissute.  Una nota sospesa - la tua - al filo di rame brunito  della speranza diviene  nella mia retina lacrima e poi sorriso ebete e meraviglia e stupore,          ché  io ancora esisto            come tatuaggio sbiadito           su pelle vissuta.  Di dirmi partecipe alle dissonanze del creato - un eterno intervallo di settima a si

Nella Fucina della Parola

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Che poi si cerchi anche il plauso dalla Fucina della Parola è cosa certa e antica. Un dire diretto per colpire in chi legge la vertebra dell'assenso. O, al contrario, un parlare sommesso lasciando intendere vi sia ben altro di non detto; solletico, questo, all'articolazione malsana della curiosità. La parola è costituita di materiale neutro, prezioso e grezzo nella Fucina della Parola; e là parlare (o scrivere) senza porsi il problema del limite (del detto o del taciuto), così rispondendo solo ad una legge antica e piccola che ci vuole schiavi di ciò che pretendiamo di dominare, è permearsi di una piccolezza che non giova a chi scrive, né a chi legge, né alla parola. L'Artigiano, pur miope, nella fucina raccoglie la gemma grezza e la pulisce da detriti millenari; bisbigliando formule sacre e antiche che ne risveglino il potenziale di stella o il ritmo costante della risacca del mare o profumi mediorientali d'eucalipto o mirto. Si dimentica l'Artigiano d'avere

Arpeggi e cicale

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  Rachmaninoff – Adagio del piano concerto #2 in C Minor, Op. 18 Io ti raggiungerò, padre, nel luogo designato, ti raggiungerò; a passo felice con i chiodi nelle scarpe, ti raggiungerò e a nulla varranno le cetre e i liuti,  là,  dove il suono della fonte sarà sovrano,  dove lo scacco sarà pedone. Io ti raggiungerò,  e sarà sorriso che unisce, padre e sarò di nuovo figlio,  del vento e delle cicale, come allora,  e il sasso che rimbalza  cricchetto, ricochet, grillo salterino. E rideremo rideremo,  come non abbiamo riso allora, e la risate si alzeranno come vele,  padre, e ci porteranno nel luogo  che i nostri occhi hanno sognato lontano, lontano, e sarà musica di cembali  e flauti e liane a cui appendersi, e sarò figlio del vento e delle cicale, e sarai figlio del vento e delle cicale. Io ti raggiungerò, padre,  e immergeremo i piedi nella neve che si farà scherzose beffe dei nostri “ohi che freddo, ohi ohi”, e rideremo, rideremo padre; e di lontano un corno inglese ci dirà che è 

Ritmo

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Tempo di scrittura 2min:26 sec Ho voglia di scrivere. Di sentire il tam tam nervoso delle dita sui tasti.  Senza seguire un filo logico.  Scrivere, finalmente, per scrivere.  Lasciando nell'etere, o all'etere, ogni mio intento.  Desidero seguire la danza dei polpastrelli come se fosse una bossa nova, e poi, chissà, qualcosa ne verrà fuori.  Ritmo, ritmo, ritmo.  Utilizzando le pause per non pensare.  Ritmo (ritmo, ritmo).  Utilizzando le pause per ascoltare.  Ritmo (ritmo, ritmo).  Utilizzando le pause per aspettare.  E poi ancora ritmo, ritmo, ritmo.  E chissà qualcosa ne verrà fuori.  Già appaiono storie possibili e personaggi strani capaci di dire ciò che evito di dire.  Le scarto. Romperebbero il ritmo (ritmo, ritmo) dei miei polpastrelli.  E poi, siccome scarto, saluto le storie e i personaggi.  Ciao, ciao. Ci rivediamo presto.  Ho voglia di scrivere, senza pensare, senza costruire, senza scartare né accogliere.  Seguendo il ritmo (ritmo, ritmo) del ritorno.  E poi lo so p

Piangi

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J.S. Bach, The Well-Tempered Clavier, Book 1 / Sviatoslav Richter  Piangi? Piangi? Piangi? E non ti chiedo perché, no non te lo chiedo piangi e non ti chiedo perché, piangi e non ti chiedo perché e leva e appoggia e senti il polpastrello sul tasto e piangi e io non ti chiedo perché sono solo suoni le emozioni, solo suoni e piangi, piangi, piangi e non ti chiedo perché, atterra, atterra e sentirai il cielo tra le palpebre che vibrano umide piangi, piangi, piangi e non ti chiedo perché lascia che sia, tempera il tuo clavicembalo, piangi, piangi, piangi non ti chiederò perché e starò qui o lì o altrove, ma starò mentre tu piangi, piangi, piangi e io non ti chiedo perché sono note che si rincorrono le lacrime, mentre piangi e io non ti chiedo perché sono fulmini, luci che abbagliano in un cielo grigio e tu piangi, tuona, tuona, e io non ti chiederò perché lo senti il canto della sirena che lento avanza e non hai un palo a cui legarti e la nave va di

La Flussa

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Disegni di Judith Sideri Canto all'antica in sibemolle minore per ragù e orchestra Bolle il brodo e borbottano gli aromi e si mescolano odori e ricordi  e immagini e penne e parole tra i peli ormai bianchi della mia barba. Sanno di desiderio, il mio,  mentre il tuo vissuto canta nelle cucine in cui giocavi coi tuoi  sei fratelli tra una risata  e un rimbrotto della rezdora. Io non lo so, anzi lo so cosa ti ha reso muto; non so, anzi lo so,  cosa mi ha reso ciarlone.  E so che ciò che mi ferisce  ora ti ferì allora, papà.  E scusami, se ho aggiunto bacche di ginepro  ai tuoi ragù, ma i miei boschi  si insinuano ovunque. Sono i sentieri che ho percorso  per allontanarmi da te, le vie che ora  mi riportano a te. E il merlo di cui tu imitavi il fischio canta sul mio balcone a ogni tramonto. Ci toccheremo finalmente le mani sotto un larice, papà, e forse mi tirerai come allora una pigna, e fingerò come allora di rima

La costruzione del Silenzio (Testamento dello Scrittore)

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                                                                                                    Sono lampi le idee, tuoni i pensieri. Accendono, imprevisti, serrature antiche.  La chiave di ferro, vibrazione e clamore, s'attarda nella mano.  Perché è a tentoni, nella penombra della lingua, che le idee e i pensieri aprono porte a lungo rimaste chiuse.  E, prima di scrivere, spengo lampi, zittisco tuoni.  Perché sia un gesto antico a guidare le mie intenzioni.  C'è una chiave per ogni serratura, un suono magico, per ogni combinazione, un colore per ogni stagione.  Li compongo in un unico quadro, in unico quadro.  Strumenti diversi per la stessa via.  Accendo e spengo l'interruttore della verità.  Il Silenzio che prepara la parola, la modella ancora prima della sua confezione.  Le dà spinta e trattenuta, ne smussa gli angoli più pericolosi, e, poi la lancia, lontano, lontano, dove il mare poggia lo sguardo sull'imprevisto.  Non credo che ques

Fuggono come frecce

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Scritta ascoltando la musica de  L'Estro Armonico di Antonio Vivaldi E via e via fuggono come frecce intuizioni mal partorite nel buio della stanza lasciano scie di fumo grigio sulle pareti biancastre del mio orgoglio che cola come cola inchiostro dal pennino datemi silenzio datemi silenzio vera china del mio sentire silenzio tra le pieghe di una pagina che avrei voluto semplice e non mostra che grinze e accartocciamenti datemi piume datemi piume leggere piume tra dita che battono a ritmi barocchi sulla tastiera e soffi all'orecchio e carezze sulla nuca e via e via tornano dal nulla i pensieri miei piangono lacrime di noia sulla lama di una spada che fu confine e carezza tra terra e cielo