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Il centro e la pratica marziale interiore

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"Cerca il centro", disse il mio maestro. "La tecnica non può funzionare se non mantieni il contatto col tuo baricentro". Poi mi chiese: "Ok l'hai perso, cosa fai per ritrovarlo?". "Appoggio lo sguardo sulla linea dell'orizzonte", risposi meccanicamente; una lezione imparata a memoria. "No", disse indurito, "Lo sguardo viene dopo, molto dopo".  "Sensei, io non lo so", risposi. Non parlò più e se ne andò a correggere qualche altro allievo. La sera, come sempre, un grande parlare tra noi allievi, qualche bicchiere di vino e un grande amichevole casino. "Cos'hai?", mi disse lei, "sembri assente". Era una delle allieve più anziane del mio maestro. Bassa, fortemente in sovrappeso, con uno strano accento della Francia centrale. Quando però saliva sul tatami restavamo tutti estasiati. Sembrava danzare al ritmo della sua spada di legno, tracciando con la sua punta linee che sembravano pennel...

Il foglietto azzurro

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"E se il vento, repentino, carezza i miei ricordi, dove giace, immobile ed eterna, la mia speranza? Apro gli occhi ed assaporo l'esistenza in me di ciò che altri, pavidi navigatori del razionale, hanno definito con scherno "sogno". Poi, con un gesto antico, mi alzo e, lo sguardo sulla linea dell'orizzonte, grido al Cielo: Io sono l'Uomo". Il foglietto fu posato dalla donna, con gesto lento, meditato e rispettoso sul sedile del treno. Prima di scendere, la donna diede al foglietto azzurro un ultimo sguardo. Sorrise e se ne andò. L'uomo, qualche ora dopo, lo trovò sul sedile accanto al suo sul treno. Lo sguardo stanco, forse troppo rivolto al suo dolore, si posò quasi per caso su quel pezzo di carta. E fu la sua indolente mano che, senza nemmeno pensarci troppo, decise di raccogliere quel foglio. Leggerlo fu un gesto spontaneo e poco meditato. Ci volle qualche minuto prima che il significato di quelle parole raggiungesse la sua coscienza....

Abissi ebbri

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Alla quarta birra tutto appare chiaro. E si mollano gli ormeggi, l'etica vola alta. L'emozionale, pur non negato, si assoggetta alla legge dello spirito. E dello strazio e delle ossa polverizzate e del respiro che si blocca in gola e di quei pensierini che negano l'esistenza, quasi non esiste più traccia. Ci si sente centrati. Infusi di una saggezza antica. E si ha il coraggio di dire: "che sia, io lascio andare". La vocina che, fino ad un secondo prima, ti frantumava i polmoni, tace, e tu, vecchio saggio dalla barba bianca, dispensi le tue vette a te stesso e a chi, malauguratamente, ti sta ad ascoltare. Tripudi, grida di eccitazione: "Bene, bravo, bis". Alla quinta birra, però, sordida, la vocina si fa risentire. "Sei certo di farcela a lasciar andare?". "Come farai senza la tua essenza?" Alla sesta birra ti addormenti. Si addormentano i tuoi sensi ed anche la tua etica. E tu, figlio bastardo di un D.o minore, se non ...

Il rapporto olfattivo col diritto

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Conoscevo un giudice del Tribunale di Milano al quale quando passavi il fascicolo d'ufficio, perché ne analizzasse gli atti, essendo mezzo orbo, se lo portava ad una distanza quasi millimetrica dagli occhi, il naso in contatto col cartone, e lo scorreva tutto quasi fosse un moderno scanner. La cosa, esilarante per la maggior parte dei colleghi e me, provocava battute sarcastiche nei corridoi che per pudore non ripeto. Un giorno diedi un'interpretazione diversa alla cosa che lasciò molti inizialmente interdetti. Dissi " Ma non avete capito un cavolo! Il giudice X ha un rapporto olfattivo col diritto. Lui non fa scanning, lui il fascicolo lo annusa, lo odora e dagli odori (profumi mi parrebbe troppo) dei fascicoli, moderno segugio di commi ed articoli, determina torti e ragioni". Ovviamente tutti risero e mi diedero del matto e la cosa a me, giovane neo avvocato, fece piacere perché nell'ambiente passare per mattacchioni non guasta, ed io penso di riuscirci...

L'avvocato è stanco (nature boy)

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Il colloquio col giudice era stato stimolante e proficuo. Avevo usato ogni arma a mia disposizione per far passare come sostenibile quell'assurda mia linea difensiva. E, dallo sguardo che la dottoressa aveva posato nei miei occhi, avevo intuito che un qualche barlume di dubbio ero riuscito a seminarlo. Ma lei continuava a guardarmi, anche quando avevo smesso di parlare. Uno sguardo enigmatico, di chi ne ha viste tante, forse troppe. Solo i giudici, anzi solo i migliori tra loro, sanno tenere quello sguardo. E io, nonostante i miei trent'anni di arti marziali, i miei discorsi sullo sguardo del samurai e sulla capacità di chiudere gli occhi quando necessita, mi ero sentito nudo e inerme di fronte ai suoi occhi. Mi ero limitato a tacere, guardandola come un bimbo guarda una mamma arrabbiata dopo aver commesso qualche marachella. "Avvocato, ho capito", aveva detto, "e le prometto di valutare con attenzione le sue parole. Non tema. Ci sono ancora dei punti...

L'incipit dei miei incipit

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Quando avevo circa vent'anni andai da solo in una birreria vicino a casa, armato di penna e taccuino.  Era tanto figo a quell'epoca concentrarsi su una traccia, su un'idea. Solitario, ma nel brusio del locale affollato, provavo a scrivere. Di colpo sentii una mano sulla mia spalla.  Era un vecchio dai capelli bianchi, camicia azzurra, baffi anni 70, lievemente all'ingiù.  Mi guardava dritto negli occhi, con un bicchiere in mano. Ricordo che non ebbi paura.  Anzi, era come se lo conoscessi da sempre. I miei occhi giovani e inesperti nei suoi, blu come il mare, vissuti e sornioni. "Anche tu scrivi per sopravvivenza, vero ragazzo?", mi chiese.  Non seppi cosa rispondere, ma sorrisi. Lui si fece più serio.  "Conosci Blackbird dei Beatles?", mi chiese. "Si". Risposi. "Ascoltala bene prima di scrivere di nuovo, potrai sopravvivere meglio", mi disse e se ne andò. Oggi, mentre scrivo, siedo in una birreria da solo; osservo la gente i...