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Lettere a una persona speciale (1- 10)

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IB e suo marito - LUCIAN FREUD 1 Qualità  Se forse una (una sola) dote io ho, è percepire al primo respiro la qualità dell'altro, nell'altro. Non a caso mi chiamano Fedro. Tu hai il passo del petalo e lo sguardo, dolce, su un orizzonte lontano, in cui non si sperde l'umano. E la cadenza della tua voce è tratto nobile, anche per un orecchio plebeo, come il mio. Al tuo passo si chiudono gli occhi, pudici, e la memoria torna a corti antiche. Perché non è con sguardo baldanzoso che si incrocia la bellezza. La bellezza la si riconosce al tatto delle ciglia e ci si ritira ritrosi, sperando che non abbia fine, allo splendore eterno della vita. 2 Sofferenze e gelati  C'è troppa sofferenza nel mondo. Ci sono occhi che si chiudono per non guardare più. E labbra che si serrano, fino a diventare pallide, per non dire l'indicibile. Ci sono pianti troppo trattenuti, che si tramutano in rabbia. E poi paure, paure; paure così tanto vissute da far credere che non possa esserci un

Danza e Bulli

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  Pyotr Ilyich Tchaikovsky - Swan Lake (Hauser · London Symphony Orchestra · Robert Ziegler) “Credi di aver danzato sinora? Invece hai girato su te stesso, costretto come una vite in un tassello. E scambiato i limiti del muro per il tuo palcoscenico e le polveri dei calcinacci per plausi. Hai scambiato per Danza la più antica delle schiavitù.” Il ragazzo non capiva e si perdeva nello sguardo duro del maestro. Dopotutto non era sempre stato lui il più bravo della classe? Ogni ruolo principale gli era sempre stato assegnato e le critiche sui giornali del settore erano sempre state entusiaste. “Ho avuto un allievo tanti anni fa”, continuava il maestro, “lui sì che danzava. Lui il muro sapeva cos'era, e lo sgretolava coi suoi passetti da pulcino e lo sguardo perso nell'orizzonte. Tu sei una vite cromata, grossa e lucente, ma nel muro ci entri troppo volentieri. Ti ci adegui come se fosse un palazzo dorato e tu il Re. E, così facendo, ti trovi poi bloccato al muro, cost

La danza dell'ubriaco greco (Zeybekiko)

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Dove devo pescare questa volta? In quale lago, fiume, mare di parole?  A quali miti devo fare appello? E per far cosa, poi? Per descrivere la danza che la luce gioca nei tuoi occhi esiste un vocabolario? E le nuances dei tuoi sguardi hanno un mito che le sostenga? O provengono da un'essenza ancora più antica? Oh sì, potrei scrivere tomi sulle extrasistole che i tuoi sguardi provocano al mio cuore malandato. Ma si danza in due e io conosco un solo modo di farlo. Allora mi alzo e inciampo. E rido. E il tuo sguardo si fa serio, perché sai che potenza possa scaturire dal passo incespicato di un ubriaco. Perdo l'equilibrio, è vero, ma questo mi permette di mettermi davanti a te. Sei seduta con le tue amiche. E mi guardate. E, lo so, tu non cogli quel rimprovero nei loro sguardi, mentre tacciono e pensano: “ma perché solo per lei? Perché quest'uomo danza solo per lei? Questo cialtrone, quest'ubriaco, questo genio, questo Nureyev greco che puzza di Ouzo di basso rango

La danza del pugile

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Abbasso la guardia, ancora una volta, e lo prendo in pieno volto.  E cado a terra col pubblico che grida e il viso preoccupato dell'arbitro a pochi centimetri dal mio.  Conta fino a dieci. Urla. Ma dieci cosa?  Non sono certo secondi quelli che scorrono lenti tra i miei occhi gonfi.  Uno, due , tre.  Nemmeno il tempo di capire dove sono. Respirare mi fa male.  Erano tre i fratelli maschi che mi hanno portato via.  E danzo sul ring e picchio forte il sacco per dimenticare, per perdonarmi di essere sopravvissuto, io, il più piccolo, unico nella mia famiglia, a quello scempio.  E certo che ho dovuto imparare a danzare, e non so se sia più difficile schivare i montanti di Jo, il mio istruttore, o i ricordi.  So che muovo i piedi leggero come un danzatore classico e la gente in palestra si ferma a guardarmi estasiata.  Ma, se il nome dei miei fratelli compare da qualche angolo della mia mente, mi fermo abbasso la guardia e guardo Jo. Vorrei che mi colpisse in mezzo al viso, che mi fraca

La danza dello scrittore

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  J. B. Bach - Prelude 1 in C Major BWV 846 from the Well-Tempered Clavier (Tzvi Erez) È una questione di appoggi, sai. Scrivere è essenzialmente una questione di appoggi. Fisici, corporei, mentali. I pensieri, le idee, le intuizioni non hanno forma, prima di adagiarsi su una superficie ruvida. Che sia un foglio bianco di carta, o la tastiera di un PC , le idee e le intuizioni non hanno forma prima di calare sul reale. Scriviamo come danziamo. Un passo prepara il balzo verso il cielo, la piroetta o le figure a terra. Così chi scrive sa bene che una parola trascina la successiva verso il cielo (o a terra), a volte senza un disegno apparente. Per questo scrivere è essenzialmente una questione di appoggi; più o meno calcati, più o meno aderenti al terreno. Ho visto gente danzare attorno ad un idea per ore, prima di scrivere la prima lettera, e io stesso, lo sai, attendo sempre degli eoni prima di lasciare un segno. Perché lasciare un segno è un atto inesorabile, incontrovertibile. Perché

Bisbigliavi: "danza".

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  Ottanta passi ancora. Per arrivare alla vetta.  Stanco, sì, ma col cielo negli occhi. La “Testa Grigia” non è una montagna per tutti. Quell'ultimo tratto con grande esposizione fa paura. Niente di difficile per un piede esperto, ma bisogna evitare di cedere alla tentazione di guardare in basso. Perché il basso ammalia e attira; perchè il basso terrorizza e impaurisce. Allora si fa quell'ultimo breve tratto guardando lievemente il cielo che, pur essendo ovunque, immaginiamo essere sempre e solo quello delle stelle e del sole; immensamente lontano. Ci aggrappiamo ad un abisso distante per non cadere in un altro, sotto di noi. E quell'abisso lontano ci sostiene negli ultimi passi, mentre il ritmo cardiaco aumenta per la paura. È di noi stessi che abbiamo timore. Sono roccette facili quelle dell'ultimo tratto. Chiunque può affrontarle e non richiedono alcuna esperienza o abilità tecnica. Eppure non sono roccette per chiunque. Troppa gente è caduta in quell'ultimo trat

La danza delle parole (scrittura spontanea)

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  Mi siedo. Resto immobile davanti alla tastiera del pc.  Attendo e estendo. Arrivano lente. Ma arrivano sempre. Le parole.  Da luoghi a me sconosciuti. Arrivano e bussano prima alle tempie poi sullo sterno.  Legate, disgiunte, piccole e crocchie.  E bussano, per essere dette, per essere scritte.  Io mi siedo, immobile, e aspetto.  Ecco la prima  Aquilone E cieli tersi, e fili lunghi tesi. E vento. Tanto vento. Da portarti via. Chissà dove, chissà dove.  Sabbia  Riempivo le mani di sabbia al mare e la lasciavo cadere piano come un flusso di cose antiche.  E poi danzavo al ritmo del granello di sabbia. Giochi di bambini. La sabbia era calda. Io ero caldo.  Madre Che te ne vai, che resti, che sorridi quando leggi cosa scrivo e mi dici che dovevo scrivere di più allora. E ci guardiamo, sapendo che allora non era possibile; ma ora sì.  Ora danzo con le parole e tu sorridi, che forse tutto questo lo avevi già visto. Allora  Ragù  Borbottava di là, in cucina. Mentre io leggevo i fumetti nell

Quando danzai la danza della purezza

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  “Sergio Donati, passaggio di secondo Dan”, dice il Maestro.  Seduto in Seizà, saluto alla giapponese e mi metto al centro del tatami.  “Tecniche in piedi. Tre Ukè (attaccanti)”, dice il Maestro.  Le mie mani diventano calde e lo sguardo si posa sull'orizzonte. Lontano.  Saluto, in piedi gli Ukè.  Posizione di profilo. Perfetta.  Il primo prova una presa al polso. Esco dalla linea d'attacco, e entro sul suo asse verticale col gomito. Lo proietto lontano da me. Un perfetto Joko Irimì, una delle mie tecniche preferite.  Il secondo mi attacca alle spalle. Faccio un veloce spostamento indietro. E lo proietto, facendolo girare attorno la mia schiena. Koshì Nage.  Il terzo mi porta un veloce Tzukì (pugno centrale) al petto.  Esco dalla linea d'attacco. Faccio una serie di leve su polso e spalla e lo immobilizzo a terra. Quando lo libero ci guardiamo e sorridiamo. Ci guardiamo e ci guariamo.  “Bokken”, la spada di legno, dice il maestro. Due attaccanti.  Mi giro e gli sorrido, me

La danza di Ama-no-Uzume e del figlio della luna

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Io l'ho vista. Io c'ero.  Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, e i miei occhi non vedono.  Mi siedo sulle rocce e suono il mio Shakuhachi, il flauto di bambù, per chiamare le assenze.  E la vista, quella del flauto, mi guida e porta immagini da lontano, oltre l'oceano.  Ascolto incantato tra una nota e l'altra la risposta degli dei.  Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, ma io non conosco il mio vero nome.  Nè so da quale grembo io sia uscito.  So solo che il mio Shakuhachi canta e incanta.  E il mio fiato, così dicono, porta zefiri dorati nei boschi.  Le foglie, sì le foglie rosse, sotto i miei piedi mi raccontano storie.  Melanconie, rimpianti dei rami, desideri impossibili di tornare ad attaccarsi alla vita.  E suono per loro il mio flauto come a dire: “tornerete, sotto altra forma, alla vita. Tornerà in voi, attraverso voi, la vita. Ora è il momento del riposo”.  E la volpe rossa, tutte le sere al tramonto, si ferma immobile ad ascoltarmi

La danza del vecchio

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    Sibelius Violin Concerto - Maxim Vengerov, Daniel Barenboim È un vecchio. Porta la barba bianca e cammina per le vie del ghetto. Lo sguardo allucinato. E ferma i passanti, tenendoli per il braccio. Una stretta forte. "Dov'è?", chiede "Dov'è l'anima mia". Poi si china a terra e sbatte i pugni sulla terra. Secca. "Dov'è l'anima mia?”, ripete. La gente lo guarda, impietosita. La gente lo guarda. Impietrita. Il vecchio si alza, lo sguardo verso il cielo. “Dov'è l'anima mia”, urla. La gente non sa cosa fare, cosa dire. Guarda il vecchio con gli occhi velati di lacrime. “Dov'è l'anima mia?” Mordi, il violinista arriva da lontano. Strascicando i piedi.  Coi suoi occhialini tondi e la barba incolta color di cioccolato. Il vecchio scuote la testa come a dire: “no, no, no”. E ripete piano, come se fosse una litania, una nenia, una preghiera: “Dove sei, anima mia?” E si dondola piangendo. “No, no, no, dove sei fuggita, anima mia”.

La lenta danza di una donna e il mare

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Guardo il mare e mi accorgo di quanto pesi la mancanza del tuo sguardo sulla mia schiena.  Guardo immobile il mare, che immobile non è mai, e sento la pelle scottare.  Proprio sulle spalle dove hai posato le tue labbra prima di andartene.  E un'onda, e poi un'altra e i piedi sulla sabbia.  E io, no, non piangerò.  Non piangerò l'assenza della tua parola, il tuo volare via come un gabbiano, senza nulla dire.  Come se andarsene fosse un gesto dovuto, inesorabile.  Come se l'assenza di spiegazioni fosse un segno di saggezza.  Le parole, anche quelle inutili, sono essenziali per sopravvivere.  Ma io, no, non piangerò.  E ad ogni onda sposterò i miei piedi sulla sabbia.  Solo pochi centimetri, ad ogni onda.  E ogni onda, e ogni centimetro sulla sabbia, saranno le parole che non mi hai detto.  Inutili, necessarie.  Perché c'è molta più saggezza in un'onda e nei miei piedi e nella sabbia che nel tuo volo di gabbiano.  Tu non hai radici. Io le mie radici le faccio danza

La danza di Maia, la ninfa (e Zeus)

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Sono scesa dal cielo, ho lasciato le mie sorelle perché il Sogno mi ha detto che qui ti avrei incontrato.  Sono poi uscita dal Sogno perchè il cielo mi ha detto che non esisti.  E guardo i miei piedi sul muschio e respiro, tra cielo e Sogno e mi incanto, perchè lontano, troppo lontano, so che invece esiste un luogo dove Sogno e cielo fanno l'amore.  E i miei piedi prendono la forma delle foglie. E respiro.  E alzo il palmo della mano sinistra all'altezza dei miei occhi e il mio volto si adombra, gli occhi si velano e canto piano l'uscita dal Sogno.  A nulla valgono i riflessi di stelle nelle mie pupille, a nulla.  E muovo il primo passo. E la schiena si raddrizza, lo sterno si allinea alla cinta di Orione, e monta, monta, monta la rabbia.  Perché troppo a lungo ho sognato.  E il secondo passo, più deciso, pesta forte contro il muschio, come una mazza contro il tamburo, e poi salto. Cado a terra. Mi rialzo e salto ancora. E ogni volta che cado (e mi rialzo) pezzi di Sogno ve

La danza di K.

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  La lucida determinazione di chi ha scelto. Sguardo piantato sull'orizzonte. Come un chiodo. Piantato fino alla capocchia sulla linea d'ombra dell'orizzonte.  È morto il re. Viva il re.  Dietro le schiere. Davanti il chiodo.  "Io lo conosco quello sguardo", disse Alef, "lo stesso di David prima di lanciare la pietra sulla fronte di Golia".  "Io invece conosco il chiodo", disse Tzade. "È lo stesso, fatto di pesante silenzio, che si piantò nel cuore di Aronne per l'improvvisa morte dei figli".  "Io invece", disse Iod, "conosco meglio di voi l'orizzonte e so che tra poco sputerà via il chiodo e si sposterà, lontano".  "Vogliamo dargli una mano?", dissero in coro Pei e Ayin. "Ci penso io", disse Kof e si posò sulle palpebre di K.  Egli perse subito l'orizzonte, lo sguardo, il chiodo e pure la parola.  Si alzò e cominciò a girare su se stesso, a spirale, sempre più vicino al proprio cent